Val di Cembra: da Dolo-Vini-Miti un dibattito su rischi e opportunità dei percorsi di valorizzazione dei territori vitivinicoli

Il convegno sui paesaggi del vino che ha inaugurato Dolo-Vini-Miti è stata occasione di confronto tra distinte realtà, dalla Val di Cembra all'Etna

16 Ottobre 2024 - 11:31
Val di Cembra: da Dolo-Vini-Miti un dibattito su rischi e opportunità dei percorsi di valorizzazione dei territori vitivinicoli
Foto di Luca Dalvit 

VINI E DINTORNI - Quanto sia cambiato il mondo del vino e insieme ad esso la sua narrazione è sotto gli occhi di tutti, parlarne oggi significa soprattutto entrare nella dimensione dell’esperienza che vede nel territorio e nel paesaggio gli elementi centrali del racconto, condizione che spinge sempre più verso la promozione e la tutela dei luoghi, polarizzando investimenti volti ad accrescerne l’attrattività, al fine di creare valore, con un effetto a cascata, anche per le produzioni. 

Dal patrimonio UNESCO al GIAHS (Globally Important Agricultural Heritage Systems), l’ambizione di voler vedere riconosciuto universalmente il valore di un paesaggio, di un sistema o di una tradizione agricola accomuna oggi molte realtà del Belpaese e anche legittimamente. Il punto è però definire come e a quale velocità si possa procedere in questa direzione senza che si producano effetti collaterali a fronte di un obiettivo di crescita sostenibile per gli stessi territori e le comunità che li animano e quanto di questa evoluzione, espansione ed attrattività che discendono dall’ottenimento dei prestigiosi riconoscimenti possa tradursi in un effetto boomerang, con attentati alla continuità delle stesse tradizioni e dunque dell’unicità e ricchezze locali.

Temi caldi che hanno animato il convegno “I paesaggi del Vino: la Val di Cembra, le Langhe e l’Etna – Storie di terre di vino a confronto tra Unesco e PRIS”, evento di apertura della seconda edizione di Dolo-Vini-Miti, il festival, giunto alla sua seconda edizione, che dall’11 al 20 ottobre ospita, tra la Val di Cembra e la Val di Fiemme, oltre 20 appuntamenti per celebrare “i vini verticali” e conoscere da vicino territori di grande fascino e storia. 

da sinistra: Bruno Bertero, Damiano Zanotelli, Rosario Pilati, Cristina Mercuri, Maurizio Lunetta, Aldo Vajra, Fabio Piccoli. Foto di Luca Dalvit 

Introdotto da Vera Rossi, Presidente dell'Associazione Turistica Val di Cembra, e moderato da Cristina Mercuri, DipWSET e wine educator, il dibattito a più voci ha portato al confronto tra realtà con trascorsi profondamente diversi ma con una identica proiezione, quella verso una crescita che possa essere sostenibile nella misura in cui la valorizzazione e la promozione non vadano ad inficiare quelli che molto spesso sono fragili equilibri dei sistemi territoriali. 

Un confronto serrato dal quale sono emerse una serie di considerazioni importanti a partire da quelle di Damiano Zanotelli, Presidente del Comitato VIVACE nato per candidare la Val di Cembra all’iscrizione al registro dei paesaggi rurali storici andata a segno nell’ottobre del 2020, e in seconda battuta per ottenere il riconoscimento GIAHS, quello di sistema agricolo di rilevanza mondiale per il quale l’iter è ancora in corso. 
Secondo Zanotelli intraprendere questi percorsi ha rappresentato per la Val di Cembra un momento di consapevolezza richiedendo di:

  • ricostruire analiticamente l’evoluzione del paesaggio rurale e dell’uso dei suoli del territorio dagli anni 50 ad oggi (rimasti invariati per l’80%), 
  • evidenziare gli elementi che rendono rilevante il territorio, e cioè terrazzamenti, muretti a secco, sistema di allevamento a pergola trentina, baiti (gli edifici rurali sparsi che garantiscono una connotazione del paesaggio e sono anche luoghi di socialità), e l’alternanza di habitat tra coltivato ed elementi naturali (dovuta alla parcellizzazione della proprietà); 
  • analizzare gli aspetti socio economici, la vitalità del territorio, e il patrimonio storico culturale e agricolo sedimentato nella società. 

Un focus probabilmente inedito che ha consentito di prendere coscienza di potenzialità e criticità allo stesso tempo, unitamente alla necessità, imposta dal riconoscimento GIAHS, di definire un piano di azione, per cui nell’ambito del percorso partecipato ci si è confrontati tra enti pubblici, enti del terzo settore, imprenditori privati per individuare le direttive di sviluppo, garantendo il mantenimento della produzione nelle condizioni ecosistemiche che preservino la qualità del territorio, un approccio impegnativo per preparare una realtà con le sue fragilità al cambiamento. 

Una fase di preparazione al cambiamento a quanto pare non approcciata a tuttotondo e con le dovute cautele in uno degli areali vitivinicoli più noti del Belpaese, come ha raccontato Bruno Bertero, Direttore generale dell’Ente Turismo Langhe – Monferrato - Roero, riportando le evidenze di una ricerca sulle ricadute sociali, economico-occupazionali e comunicazionali di lungo periodo del riconoscimento UNESCO a dieci anni dal suo ottenimento da parte di questi ormai iconici territori. 
Il sito in questo arco temporale avrebbe generato una spesa diretta pari a 88 milioni di euro con un effetto moltiplicativo indiretto e indotto sull’economia di circa 62 milioni, per un impatto economico totale di circa 121 milioni (il moltiplicatore totale sulla destinazione sarebbe stato pari al 2,37%).
32 milioni di euro la valorizzazione in termini di impatto comunicazionale (ovvero quanto vale in euro la comunicazione dei pregi e dell’identità del sito Unesco), con una crescita significativa della visibilità mediatica dei territori delle Langhe-Roero-Monferrato sia a livello nazionale che internazionale. 
Preoccupanti le evidenze degli effetti dal punto di vista sociale con i territori che stanno subendo uno spopolamento costante e continuo.  Perché se da un lato il valore immobiliare è cresciuto dall’altro è aumentato anche il numero di investitori estranei alle Langhe, comprese le multinazionali che si stanno accaparrando proprietà a scapito di una continuità dei possidenti locali, con crescenti difficoltà per chi vorrebbe trovare casa per poter coltivare la vite, lavorare in ristoranti e cucine. 

Una situazione per certi versi emergenziale che richiederebbe la costruzione di un modello differente, con un approccio etico e consapevole che tenga conto di una fragilità di un territorio che è necessario cautelare. Secondo Bertero bisognerebbe fare in modo che la presenza dei turisti (circa un milione e mezzo all’anno) non incida negativamente mettendo in campo azioni di demarketing per veicolarne i flussi in momenti diversi e su zone differenti. Fondamentale puntare anche su una maggiore formazione degli operatori territoriali che fino ad oggi è mancata o comunque è stata lacunosa. E se è vero che oggi ogni viaggiatore si muove verso una destinazione per un’esperienza, perché vuole attraverso un piatto e una bottiglia avere una maggiore informazione su quello che è il valore culturale di un territorio, non bisogna dimenticare che quel valore culturale è preservato dai residenti, che sono sempre meno. L’invecchiamento della popolazione e la mancanza di trasferimento di queste tradizioni culturali alle nuove generazioni sono elementi critici e oggi il compito per una Destination Marketing Organization e per un paesaggio vitivinicolo secondo Bertero sarebbe proprio quello di ripristinare i meccanismi per preservare i nuovi modelli di cultura dati dal mix delle diverse etnie che si presentano sui territori. 

Sulla centralità del dato culturale non ha dubbi Aldo Vajra, titolare dell’omonima cantina nelle Langhe, probabilmente anche in virtù del suo stesso percorso umano e professionale, che quando alla fine degli anni 60 andava di moda l’esodo delle campagne verso la città, lo vide scegliere di realizzare il sogno di fare il contadino. Inizialmente conferitore, dal 72 si da alla vinificazione e inizia ad approcciare il mondo del turismo enogastronomico che all’epoca era fatto di visite in cantina il sabato e la domenica, con gruppi di appassionati armati di damigiane per portar via il vino. Fino al fatidico 86, l’anno dello scandalo del metanolo, una svolta radicale, che insieme ad una tremenda grandinata in diversi comuni nella zona cambiò tutti i paradigmi con un turismo fatto di giornalisti alla ricerca dello scoop. 

Subito dopo l’arrivo di reporter americani, inglesi, tedeschi, svizzeri, austriaci che iniziano a interessarsi al territorio e l’avvio di un processo inarrestabile di trasformazione, con le Langhe della policoltura fatte di tanti fazzoletti coltivati a vigneto, a campi, a frutteti (nocciole, peschi) che ad opera dell’uomo cambiano volto per arrivare ad una valorizzazione della loro vocazione enologica riconosciuta dall’Unesco, un grande sforzo che ha riplasmato queste terre e le ha portate a quello che è oggi è dato di vedere. L’elemento positivo, il punto di forza del riconoscimento Unesco è stato l’arrivo di tante persone, con più opportunità di raccontare la bellezza dei territori e del lavoro dell’uomo ma anche per Vajra resta il rischio che senza una crescita controllata ad essere penalizzato o schiacciato possa essere proprio il turismo legato al vino, all’enogastronomia, al tartufo. 

La direzione da tracciare richiederebbe dunque di Individuare punti fermi, elementi identitari che possano rappresentare la base per lo sviluppo enoturistico del futuro, un approccio condiviso anche da Rosario Pilati, Vicepresidente della Strada del Vino e dei Sapori del Trentino, nonché rappresentante di Cembra Cantina di Montagna, che nel ricostruire la storia della viticoltura in Val di Cembra ha ricordato come al pari delle Langhe anche queste terre possano contare su unicità e bellezza suscitando grandi emozioni. Una valle originariamente povera con una viticoltura di sussistenza che fino agli anni 50-60 era legata soprattutto alla coltivazione di uve come la schiava o altre varietà locali vendute sfuse verso mercati tedeschi, ma che negli anni 80 ha subito gli effetti dello scandalo del metanolo, con la necessità di ripartire e focalizzarsi su elementi di valore delle produzioni. In quel passaggio molte cose sono cambiate, sono nate le cantine sociali, si è iniziato a capire che il territorio con la sua morfologia, con le sue caratteristiche pedoclimatiche poteva dare qualcosa di diverso. Oggi secondo Pilati si può parlare di una viticoltura moderna, identitaria, che propone dei vini apprezzati dal mercato, che hanno delle caratteristiche di piacevolezza organolettiche profondamente legate a quello che il territorio offre, quella “viticoltura di montagna” che è diventata slogan utilizzato dall’intera regione (basti pensare al Trento DOC) e che trova nella Val di Cembra quelle che probabilmente sono le più alte espressioni. (foto 6)
Da qui si può partire per promuovere un ambiente che non è solo viticoltura ma che può offrire altro, con un turismo nei numeri e nei fatti allo stato embrionale, ma che cresce, con tante opportunità per costruire. Intanto aumenta il numero di cantine, diverse famiglie si sono staccate dal sistema cooperativo e hanno creato proprie realtà, l’offerta si è ampliata, sta cambiando anche l’assetto varietale, con Chardonnay e Müller-Thurgau in testa tra i vitigni più coltivati. Si moltiplicano i progetti che guardano al futuro per sviluppare l’accoglienza, insieme alle idee sul tema dell’ospitalità e della ricettività che è al momento l’anello debole del territorio. Insomma c’è grande fermento condito però dalla consapevolezza che la crescita deve essere in sintonia con le esigenze del territorio perché quello della Val di Cembra è un sistema fragile da preservare e tutelare.  

Fase evolutiva diversa per la viticoltura etnea, ha sottolineato Maurizio Lunetta, Direttore del Consorzio Etna Doc, dove il riconoscimento patrimonio Unesco è arrivato non per i valori agricoli e umani ma per quelli ambientali e che si è configurato da subito come un’opportunità per prendere coscienza dell’enorme ricchezza del territorio e della necessità di tutelarla. Il vulcano è brand potentissimo divenuto centrale nella comunicazione non soltanto del vino ma anche dei luoghi come destinazione turistica e se è vero che oggi Etna fa tendenza l’ambizione è che non si traduca in una moda transitoria ma diventi un classico del vino italiano, intramontabile.

A favorire il posizionamento un territorio attrattivo, località turistiche, il mare, siti archeologici, che accentuano la visibilità a livello mondiale. Certo, conferma Lunetta, che c’è ancora tanta la strada da fare per evitare quegli errori in cui sono incappate realtà che hanno già bruciato molte tappe del percorso, motivo per il quale i confronti risultano particolarmente costruttivi. 
Qualcosa in termini di tutela si è già mosso e anche in modo significativo: due mesi fa il consorzio Etna Doc ha scelto di regimentare la crescita, prima DOC dalla Toscana in giù ad imboccare questa strada. Dal 2013 al 2023 il numero di ettari vitati è infatti passato da 600 a 1.500, una corsa all’oro cui si è voluto porre un freno essendo gli investimenti in tal senso ancora accessibili rispetto a zone come le Langhe o Montalcino, ma necessariamente da contingentare per evitare uno sviluppo caotico e potenzialmente lesivo della qualità delle produzioni. 

Conclusioni del convegno affidate a Fabio Piccoli, Direttore di Wine Meridian, al quale sono stati richiesti tre consigli di marketing per sviluppare la cultura contemporanea del vino. Secondo Piccoli bisognerebbe partire dalla consapevolezza che il mondo non è mai andato così veloce come oggi e per convincere più persone, a partire dai giovani, a consumare in maniera più intelligente il vino in primis bisognerebbe essere profeti in patria, cioè consapevoli dei propri valori, cosa tutt’altro che scontata. 

In Trentino, per fare un esempio, il valore della montagna è stato scoperto in tempi relativamente recenti, così come in Sicilia il ruolo che l’Etna poteva giocare da un punto di vista enologico. Bisognerebbe poi stare attenti che la narrazione non diventi retorica perché la consapevolezza dovrebbe portare ad un altro elemento fondamentale, agire con il senso del limite, superato il quale non si sarebbe più credibili, autorevoli e autentici. La terza ricetta inviterebbe a non considerare più l’innovazione come un tabù, l’idea che la tradizione sia l’unico faro a dover influenzare la comunicazione del vino, ma anche tutto il modello di narrazione e storytelling secondo Piccoli non starebbe più in piedi. Innovazione significherebbe accettare una sfida legata alla ricerca di prodotti nuovi, di packaging diversi, di una comunicazione e di un modello relazionale inediti e in questo l’accoglienza diventerebbe il sistema più sicuro con cui poter dimostrare la propria essenza, senza aver bisogno di infingimenti, e a quel punto quella autenticità diventerebbe una chiave di forza straordinaria insieme al paesaggio che farebbe inevitabilmente la sua parte.

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