Luce UV-C contro l’oidio della vite: la svolta sostenibile dai laboratori della Washington State University
La luce ultravioletta-C emerge come alternativa ecologica ai fungicidi contro l'oidio della vite. Uno studio apre nuove strade per una viticoltura sostenibile

VINI E DINTORNI - Tra gli effetti del cambiamento climatico la sempre maggiore e rapida diffusione delle malattie fungine che colpiscono i vigneti di tutto il mondo è terribile evidenza con la quale i viticoltori sono chiamati a fare i conti quotidianamente.
Per evitare la proliferazione di queste patologie, in alcuni casi particolarmente aggressive, è necessario un costante monitoraggio ma anche l’impiego di soluzioni chimiche più o meno spinte che possono essere in contrasto con una filosofia di gestione del vigneto rispettosa dall’ambiente.
Motivi per i quali la ricerca scientifica si sta spingendo sempre più avanti nel vaglio di alternative dall’impronta carbonica contenuta, in alcuni casi andando ad individuare opportunità che possono rappresentare una vera e propria svolta in ottica green.
È il caso di un innovativo studio condotto dalla Washington State University (WSU) che ha aperto nuove prospettive nella lotta contro l’oidio della vite, noto anche come “mal bianco”, fungo che attacca foglie, infiorescenze, tralci ancora verdi e grappoli e che a differenza di un’altra nota e diffusa patologia, la peronospora, non necessita di acqua o umidità per diffondersi, ma si riproduce in condizioni climatiche tipicamente percepite come non avverse quali l’assenza di pioggia, il vento e le temperature elevate.
La ricerca, guidata dalla professoressa Michelle Moyer e dalla dott.ssa Alexa McDaniel, ha esplorato l’uso della luce ultravioletta-C (UV-C) come alternativa non chimica ai fungicidi per il controllo dell’oidio: presentato con evidenze scientifiche solide e pubblicato sull’American Journal of Enology & Viticulture, ha testato applicazioni notturne di luce UV-C nei vigneti di Vitis vinifera (in particolare Chardonnay) tra il 2020 e il 2022.
La strategia ha sfruttato quello che è stato individuato come tallone d’Achille del patogeno, la sua ridotta capacità di riparare i danni al DNA durante le ore notturne, quando cioè sarebbe esposto al trattamento, e si è dimostrata efficace nel contenere lo sviluppo del fungo specialmente se applicata nella fase iniziale della stagione vegetativa, quando la chioma è meno fitta e l’esposizione diretta ai raggi UV-C è più agevole.
L’impatto di questa scoperta nel settore vitivinicolo si presenta come molto forte: l’UV-C rappresenterebbe infatti un’opzione che potrebbe ridurre l’uso di fungicidi, limitando così i residui chimici nel suolo e l’impatto negativo sulla biodiversità, oltre a rappresentare una pratica più sicura per lavoratori e consumatori. Sarebbe poi anche complementare alle tecniche di gestione integrata dei parassiti (IPM), offrendo un ulteriore strumento nella lotta contro le malattie fungine della vite.
L’impiego della luce UV-C avrebbe anche un altro vantaggio, affronterebbe direttamente i limiti delle soluzioni chimiche: non favorirebbe la comparsa di resistenze, aspetto sempre più critico, e non contaminerebbe i terreni. La sua efficacia, tuttavia, dipenderebbe da un’applicazione accurata, dal momento che la luce agisce solo sulle superfici direttamente illuminate.
In termini di impatto sulla qualità dell’uva i risultati delle analisi su fenoli, tannini e altri parametri enologici garantirebbero che l’impiego di questa pratica non ne comprometterebbe l’integrità avallando l’ipotesi che il lavoro della WSU potrebbe davvero segnare un passo avanti importante verso una viticoltura più rispettosa dell’ambiente offrendo ai produttori un nuovo strumento efficace per affrontare l’oidio, senza compromessi sul valore e le caratteristiche del prodotto finale, il vino.
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