Pantelleria, perla del Mediterraneo, isola dei venti e dello Zibibbo
Pantelleria, perla Nera del Mediterraneo,è la più grande delle isole siciliane, battuta da scirocco e maestrale, è luogo di elezione per la coltivazione dello Zibibbo.
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A sud dell’estremità occidentale della Sicilia, più prossima all'Africa che alla penisola italiana, un’isola vulcanica di rara bellezza ha conquistato e mantenuto nel corso dei secoli l’appellativo di perla nera del Mediterraneo, nota per i suoi paesaggi, le bellezze architettoniche e i grandi vini.
Terra dai ritmi lenti, feconda per le sue origini ma al tempo stesso ostile, dove la scarsità d’acqua si fa sentire tutto l’anno, Pantelleria deve il suo nome alla popolazione araba che ne fece ponte per l’invasione della Sicilia nell’VIII secolo, battezzandola come “Bent-el Riah”, ovvero “figlia del vento”.
Un nome che racconta come qui le correnti si facciano sentire senza dar tregua, giorno dopo giorno, soffiando da nord o da sud, agitando il mare e scompigliando la terra e le coltivazioni con veemenza: il maestrale invita alla dinamicità e all’apertura, ampliando anche lo spettro dell’orizzonte, lo scirocco, che fiacca, imbriglia azione e movimenti, porta con sé l’atmosfera densa e i profumi di quell’Africa le cui coste si possono scorgere in occasione dei tramonti in cui l’aria è più tersa.
Dall’interazione tra uomo, terra, vento e siccità ha preso corpo il paesaggio dell’isola, questo “cono nero che sorge dal mare”, come lo definì Alphonse de Lamartine, dove l’attività agricola è diventata l’elemento centrale ancor più della relazione con il Mare Nostrum.
Il nodo del progetto di antropizzazione dell’isola che ne ha forgiato l’aspetto è da sempre la difesa delle colture e passa attraverso la protezione delle piante dal vento, la ricerca di soluzioni per trattenere e sfruttare ogni goccia di umidità, il recupero di terre coltivabili dalle rocce, anche nelle posizioni più improbabili ed impervie. Una lotta quotidiana dell’uomo che per assicurarsi la sopravvivenza abbraccia la filosofia di una coltivazione che si fa estrema ed eroica.
Le soluzioni sono nei terrazzamenti delimitati dai muretti a secco che riparano dal vento e trattengono umidità, nei dammusi, costruzioni pantesche di origine araba che offrono riparo dalla calura estiva e con la forma dei loro tetti raccolgono l’acqua piovana, il tutto nella piena continuità con l’ambiente circostante dal momento che la materia prima resta una ed una sola: la pietra vulcanica.
Simbolo dell’agricoltura è la vite ad alberello, diffusa almeno quanto i capperi. Nei vigneti, completamente diversi da quelli tradizionali perché di limitatissima estensione e privi di filari, le piante vengono potate in modo da restar basse, con un fusto poco sviluppato da cui partono rami quasi radenti il suolo, poste al centro di buche scavate nella terra, ottenute rimuovendo le rocce vulcaniche, dove si riparano dal vento e le foglie trattengono la poca umidità del terreno.
Origini e storia
La formazione dell’isola va ricondotta ad una serie di eventi vulcanici risalenti a 330.000 anni fa, e successivi più recenti, che hanno ricoperto la maggior parte dell’isola con uno strato di magma, azzerando le precedenti colonizzazioni vegetali e creando condizioni favorevoli per le coltivazioni in termini di fecondità, i suoli sono infatti ricchissimi di minerali e silicati, di argilla e humus. Queste condizioni ambientali hanno favorito soprattutto la diffusione della vite che fu introdotta a Pantelleria dai Fenici. A dedicarsi alla sua coltura furono poi i Romani e soprattutto gli Arabi ai quali si deve l’arrivo nel IX secolo dello Zibibbo, originario dell’Egitto e perciò noto anche come Moscato di Alessandria, e alla cui tradizione sono collegati i nomi delle contrade in cui ancora oggi è diviso il territorio come Bukkuram, Khamma, Gadir e Kattibuale. Ciascuno di questi popoli ha lasciato traccia nella tradizione enologica pantesca e ha contribuito nel tempo all’evoluzione anche paesaggistica dell’isola che è espressione di un equilibrio raggiunto tra uomo e natura riconosciuto nel 2014, quando la vite ad alberello è stata annoverata come Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO. La vite in questi luoghi da secoli può contare solo sulle braccia dell’uomo, sulla sua cura e attenzione, non ci sono macchine né mezzi che possano sostituirsi a questo binomio ormai inscindibile e che vive in una condizione spazio temporale unica, dilatata, dove le ore impiegate per le pratiche in vigna sono tre volte maggiori rispetto a quelle della terraferma.Il Moscato e il Passito di Pantelleria
Il vitigno caratteristico dell’isola appartenente alla famiglia aromatica dei moscati, lo Zibibbo, cresce in vere e proprie culle, le conche scavate nel terreno per proteggere le viti dal vento, ed è allevato senza sostegno con un andamento orizzontale e quasi parallelo al terreno. I suoi grappoli, di forma cilindrica, sono composti da acini rotondi di medie dimensioni con una colorazione che va dal verde al giallo oro e raggiungono tardivamente la piena maturazione, in un periodo che va dalla fine di settembre alla prima decade di ottobre. Da questi frutti nascono i due vini celebri dell’isola, il Moscato e il Passito di Pantelleria, il primo prodotto da uve zibibbo fresche, dal colore giallo intenso, dolce e aromatico, il secondo da uve sottoposte ad appassimento in pianta o dopo la raccolta con essiccazione sugli stinnituri, stuoie di paglia sui quali vengono distribuiti i grappoli per favorirne la concentrazione degli zuccheri. Il Passito di Pantelleria, dolcissimo, dal colore giallo dorato con riflessi ambrati, dal profumo fruttato ed intenso con sentori di fichi secchi e frutta matura, frutta secca come mandorle, datteri, e nocciole più che un vino si può considerare una bevanda evocativa dell’anima dei luoghi in cui nasce, espressione delle energie del sole, del vento e del vulcano, gli elementi che rappresentano l’essenza della Perla nera del Mediterraneo.
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