Intervista a Helmuth Köcher, patron del Merano Wine Festival
In occasione di Wine & Siena 2023 abbiamo incontrato Helmuth Köcher, patron del Merano Wine Festival, per scoprire il suo punto di vista sui temi caldi del mondo del vino
In occasione di Wine & Siena 2023 abbiamo incontrato Helmuth Köcher, patron del Merano Wine Festival, per scoprire il suo punto di vista sui temi caldi del mondo del vino, dal futuro enoico italiano in chiave sostenibile al caso Irlanda, dalla competitività del vino nostrano e la sua relazione con l’attuale sistema delle denominazioni alla crisi dei consumi tra i giovani, per arrivare alla sfida dei vini dealcolati.
A Wine & Siena 2023, si torna a godere appieno della convivialità in una cornice suggestiva come quella di Santa Maria della Scala. Grandi numeri, tante etichette in degustazione, qual è il messaggio che l’ottava edizione della kermesse vuole lanciare al mondo del vino?
Dobbiamo parlare sempre di più del futuro del vino in Italia, partendo dalla considerazione che il cambiamento climatico è una condizione con la quale bisogna fare i conti, e anche subito: questo è il messaggio che vogliamo lanciare, abbiamo iniziato ieri, grazie alla collaborazione con il Monte dei Paschi di Siena, per richiamare l’attenzione su un fenomeno che sta diventando di anno in anno sempre più evidente e che ci spinge a guardare con altri occhi le stesse previsioni dei climatologi, fino a poco fa viste come eccessive ma che hanno invece grande fondamento. Dobbiamo interrogarci sul dove stiamo andando, senza lasciarci convincere dal fatto che non c’è nulla di nuovo, che le variazioni climatiche ci sono sempre state, anche nel lontano Medioevo, tra il 1100 e il 1400. Le situazioni che stiamo vivendo oggi, dove la pianta, la barbatella, la vite sono molto sensibili da una parte alla siccità e dall’altra agli enormi sbalzi di temperatura, con un clima mite in inverno e torrido d’estate, possono essere superate solo in parte con portainnesti, cloni, lavorazioni del terreno.
Lo scenario di un aumento di temperatura media di due-tre gradi va affrontato perché la vite tra il periodo di aprile ed ottobre è abituata a determinate condizioni climatiche, se venissero meno non si riuscirebbero più a garantire i livelli di qualità e peculiarità e ne andrebbe di mezzo l’identità di un territorio.
Nella fattispecie io faccio sempre riferimento ai nostri cugini francesi che stanno dando ampio spazio alla ricerca perché si rendono conto che potrebbero non riuscire più a garantire i livelli qualitativi del Pinot Nero a causa del climate change.
A Bordeaux hanno già preso provvedimenti, stanno effettuando sperimentazioni da dieci anni su 52 vitigni, perché hanno visto che per risolvere il problema e mantenere l’identità del proprio vino devono cercare di integrare e modificare le varietà attualmente utilizzate. Andando indietro nel tempo, prima dell’avvento della fillossera, ad essere diffusi erano soprattutto Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon, Carmenere e Malbec, poi è venuto il Merlot, che oggi nel territorio di Bordeaux rappresenta il 60% della superficie vitata ed è quello attualmente a maggiore rischio. Per questo hanno adottato un piano B, dando la possibilità ai produttori di integrare la DOC Bordeaux con altri vitigni, nella fattispecie ne sono stati autorizzati sei, che ovviamente cercano di mantenere intatta l’identità territoriale del vino.
In Italia invece le proposte sono tante, quella dei vitigni resistenti in testa, ma secondo me non è necessario andare a trovare delle soluzioni in grado di fronteggiare il cambiamento climatico all’interno dei PIWI, noi abbiamo un patrimonio ampelografico di oltre 1000 varietà al quale potremmo attingere. Se guardiamo per esempio al Sangiovese, al suo DNA, quello che è stato accertato in termini di parentela con altre varietà è che da un lato fa parte della famiglia del Ciliegiolo, ma secondo un altro studio pare fosse coltivato nel meridione, in particolare in Sicilia e in Calabria, tanto a lungo che incrociandosi con il Mantonico avrebbe generato il Nerello mascalese, il Gaglioppo di Cirò e il Mantonicone. Magari si riesce a trovare un connubio tra specie esistenti, dando spazio a un vitigno che già viene da un clima più caldo e che potrebbe integrare il vitigno Sangiovese.
Sono questi i temi che abbiamo urgenza di affrontare e abbiamo affrontato anche in occasione del Merano Wine Festival con il talk “Respiro e Grido della Terra”. Per me Wine & Siena deve diventare un momento di discussione, di riflessione, un palcoscenico che metta sotto i riflettori fenomeni straordinari che stanno interessando il pianeta come gli incendi in California ed Australia con boschi andati in fumo, siccità da una parte del globo, e dall’altra il gelo, con la Cina che raggiunge temperature di -52 gradi, eventi che per quanto lontani non è detto che un giorno non colpiscano anche il nostro paese e rispetto ai quali c’è bisogno di sviluppare consapevolezza, cultura e la giusta mentalità per poterli affrontare.
Un tema molto caldo è quello della possibile introduzione di healt warning in etichetta, con il caso dell’Irlanda che ha scatenato molte polemiche. Qual è la sua posizione a riguardo?
L’Irlanda ha lanciato il suo messaggio, “il vino nuoce alla salute”, e lo ha tradotto con una etichetta che ricorda quelle dei pacchetti delle sigarette e il cui obiettivo è disincentivare il consumo.
Si tratta di un approccio completamente sbagliato, perché il vino fa parte della nostra cultura, della nostra tradizione, della nostra vita. Se facciamo riferimento a libri storici come la bibbia vedremo che viene citato tantissime volte, e se non vogliamo dire che è qualcosa di sacro, non possiamo rinunciare a definirlo come qualcosa che dà gioia ed emozione, che ci trascina, incidendo positivamente su quella psiche spesso correlata a molte delle nostre malattie.
Questo evento, Wine & Siena, sta dimostrando quello che il vino può fare: vedo la leggerezza, la gioia che la gente ha di stare insieme, di essere parte di una comunità, di assaggiare un vino, di parlarne.
Si parla spesso dell’opportunità di rivedere il sistema delle denominazioni italiane, troppo numerose e foriere di confusione sui mercati, soprattutto quelli esteri. È questa la strada per accrescere la competitività del vino italiano?
Se si parte dalle intenzioni del legislatore quando sono state create le DOC, e parliamo di più di cinquanta anni fa, ovviamente facciamo riferimento ad un contesto completamente diverso dove l’esigenza era quella di tutelare il consumatore, dal momento che prima nel vino ci si metteva dentro di tutto.
Queste regole sono state declinate a seconda dei territori, ciascuno con le proprie esigenze e peculiarità e così il numero di denominazioni è cresciuto. Poi sono nate le DOCG, anche qui l’intenzione era quella di vedere se all’interno delle aree DOC ci fossero delle eccellenze che rappresentassero al meglio l’Italia, un po’ come i Premier Cru francesi.
Oggi vediamo che abbiamo almeno 80 DOCG, un riconoscimento ambito perché percepito come qualcosa che ti dà maggiore competitività sul mercato, nonostante il messaggio “DOCG corrisponde a territorio o vino migliore” non sia effettivamente corretto.
Di fronte all’impianto esistente oggi secondo me c’è bisogno di una svolta radicale, andrebbe rivisto un po’ tutto il territorio, perché se andiamo all’estero, dall’America alla Cina, e parliamo di vino italiano quello che si conosce sono Toscana, Piemonte e Sicilia, di referenze si identificano il Chianti Classico, anche se nessuno poi sa dov’è, e per il Piemonte si riesce a considerare come riferimento il Barolo.
Andrebbe rivista la strategia che dovrebbe poi rientrare nella comunicazione e quindi l’Italia andrebbe intanto comunicata come un territorio che ha tante aree vitivinicole, ogni area con peculiarità particolari. Poi si dovrebbe fare come l’Alto Adige che ha riunito sotto una DOC Alto Adige una serie di sottozone come Valle Isarco o Valle Venosta.
Questa potrebbe essere una linea dove ogni regione acquista identità, dove inizi a identificare il territorio, promuoverlo per poi andare sulle sottozone. Chiaramente ci vorrebbe una riduzione di tutte queste aree a poche, e poi farei una differenziazione. Se vogliamo un livello di referenza, anche questo va rivisto.
Cos’è una referenza? Abbiamo veramente 80 referenze di massimo spicco? È come dire ogni territorio avrà un certo numero di referenze che possono essere DOCG ma finalizzate a mettere in scena il territorio stesso, si parte da una DOC che riguarda una regione e poi all’interno della regione ci sono 3 o 4 DOCG ma il cappello deve essere sempre la regione, ad esempio Brunello di Montalcino DOCG il cappello deve essere la DOC Toscana.
Il consumo di vino tra i giovani è in calo eppure rappresentano il futuro del mondo enoico, cosa si può fare, anche in termini di comunicazione, per colmare questa distanza?
Io vedo nelle nuove generazioni una grande sensibilità, di fronte a notizie come quelle dell’Irlanda o rispetto alle campagne antialcolismo manifestano attenzione e volontà di approfondimento e questo è un valore importante dal quale partire per ogni ragionamento.
Quando sono in mezzo ai giovani e inizio a parlare di vino vogliono sapere, e se inizio a raccontare le storie che ci sono dietro ad un’etichetta, a un territorio vitivinicolo, ad un’azienda, la loro ritrosia all’assaggio si stempera, manifestano una diversa apertura. Questo è un ponte che possiamo lanciare: partire dal fatto che nel calice c’è qualcosa che è il frutto di una storia e di una cultura, da qui si può iniziare per andare poi a fondo.
In Alto Adige in primavera lancio un evento che si chiama Farm Food Festival, protagonisti sono 83 masi, le tipiche fattorie montane altoatesine, ciascuno con i propri prodotti di qualità ma soprattutto con l’ambiente e il contesto in cui sono calati. Il programma prevede laboratori con degustazioni alla cieca e show cooking. Per i giovani, che lavorano molto di immaginazione, il fatto di avere ad un tratto una immagine, ad esempio quella della Val Gardena, di grandi prati verdi, aria salubre, natura, è qualcosa di coinvolgente che li apre alla partecipazione e successivamente alla scoperta, anche dei vini, dei metodi di produzione, della cultura locale.
Le bevande no/low alcool rappresentano un trend in crescita e anche i vini dealcolati iniziano ad affacciarsi nell’ambito della ristorazione e degli eventi dedicati al mondo enoico. Merano Wine Festival aprirà a questo segmento?
Bisogna stare dietro all’evoluzione del mercato, lo vediamo anche nella nostra quotidianità, andiamo a cena fuori e se si è in gruppi un po’ più numerosi capita sempre il commensale allergico al lattosio per dirne una. Sono emerse tipologie di intolleranze alimentari che fino a trent’anni fa non esistevano, quindi la questione si pone, anche per l’alcool.
Ci sono persone che vorrebbero bere ma non possono, oppure pensano che non possono e si limitano, io rispetto tutto questo, personalmente se una persona non vuole bere è una sua decisione. Quello che trovo come un ostacolo alla convivialità è che siamo seduti a un tavolo, abbiamo tra le mani un bicchiere di champagne e chi non beve alcool si trova invece un bicchiere di succo di frutta. Questo alla persona stessa non la fa star bene nel contesto di compagnia.
Allora vedo in un vino dealcolato non certo una alternativa, ma la possibilità per una persona che non può bere alcool in un contesto di convivialità di non sentirsi escluso. Potrà avere lo stesso calice, con un vino dello stesso colore, e lo condividerà con gli altri.
Quello della integrazione di chi non può consumare alcolici è una cosa che a mio avviso ogni ristorante dovrebbe tenere in considerazione, completando opportunamente la sua carta dei vini. È una possibilità che offriamo alle persone che non vogliono bere alcol di stare bene in compagnia.
Compila il mio modulo online.