Intolleranza al vino. Una nuova ricerca potrebbe rivoluzionare la produzione enologica

Una ricerca di Sophie Parker Thomson, Master of Wine, mette in discussione l’intera letteratura sull’intolleranza al vino

26 Ottobre 2021 - 06:49
Intolleranza al vino. Una nuova ricerca potrebbe rivoluzionare la produzione enologica
È opinione diffusa che gli effetti collaterali relativi al consumo di vino come emicrania, eruzioni cutanee, tachicardia, disturbi gastrici, ipertensione e ipotensione siano legati non solo agli eccessi nel bere ma anche all’utilizzo di alcune sostanze nell’ambito dei processi di produzione del settore vitivinicolo, che inciderebbero sulla composizione del nettare di Bacco, opinione comprovata anche da una cospicua letteratura medico scientifica chiamata a dare risposte a tutela della salute dei consumatori. In particolare l’attenzione negli anni è stata puntata sui solfiti (SO2), individuati come nemici del benessere, e il cui livello di impiego per questo motivo è stato drasticamente ridimensionato nel tempo dalle aziende vitivinicole, riducendosi oggi quasi alla metà rispetto a trent’anni fa.  width= Da una parte del mondo enoico sono state portate avanti battaglie ancora più radicali in termini di “filosofia produttiva”, in alcuni casi ai limiti dell’ideologico, culminate con la volontà di escludere totalmente l’SO2 dai processi e di riportare in etichetta la dicitura “senza solfiti aggiunti”, a voler rappresentare una garanzia di genuinità di alcuni prodotti rispetto ad altri e della estraneità degli stessi alla compromissione della salute. Non tutti hanno sostenuto questa corrente di pensiero. Un altro fronte di produttori ed enologi ha sempre avuto il sospetto, se non la certezza, che mettere da parte le difese del vino da attacchi esterni attraverso l’SO2 senza avere una attenzione e un controllo maniacale della gestione sia in vigna che in cantina, con continue analisi chimiche, lo potesse esporre alla formazione di ulteriori sostanze molto più pericolose come acetaldeide e ammine biogene, e che si dovessero dunque contemperare le esigenze e bilanciare i rischi. La diatriba ha trovato la sua sintesi nella contrapposizione tra sostenitori dei vini naturali, biologici e biodinamici contrari all’impiego di solfiti, e i sostenitori di quelli definiti tradizionali o industriali, termine quest’ultimo utilizzato con accezione ovviamente dispregiativa. Oggi una ricerca realizzata da una giornalista neozelandese, Sophie Parker Thomson, per il suo esame di Master of Wine, spariglia tutte le carte in tavola evidenziando scientificamente che esiste una relazione tra anidride solforosa e livelli di ammine biogene nel vino, una relazione sulla quale incidono non solo le quantità di SO2 impiegate nei processi produttivi, ma anche i tempi di impiego della stessa che, se tardivi, possono determinare ugualmente conseguenze importanti sulla salute dei consumatori. Secondo la Thomson in molti potranno trovare risposte al perché degli effetti collaterali che non sempre sono riconducibili esclusivamente all’eccessivo consumo di alcol. Lo studio in qualche modo rappresenta una revisione dell’intera letteratura sull’intolleranza al vino e stabilisce che la causa più probabile di questa condizione, tra l’altro più comune di quanto si possa immaginare, sia da ritrovare proprio nella presenza di ammine biogene. Questi composti chimici creati dai batteri, ingeriti in quantità superiore a quella che il nostro corpo può naturalmente tollerare, innescano tutte quelle reazioni legate al consumo di vino alle quali spesso non abbiamo saputo dare una spiegazione.
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Sophie Parker Thomson

Cosa sono le ammine biogene

Le ammine biogene sono molecole organiche contenenti azoto derivanti dalla decarbossilazione, cioè dalla perdita di uno o più gruppi carbossilici, di aminoacidi presenti nel vino a causa dell’azione di lieviti o batteri. Sono note come istamina, tiamina e putrescina, nomi che, già da soli, non lasciano presagire nulla di buono. Normalmente il nostro organismo le metabolizza e le elimina, ma se gli enzimi coinvolti nella loro digestione vengono inibiti, per esempio dall’alcol, o se ne raggiungono livelli troppo elevati nel corpo, per esempio attraverso il consumo in contemporanea di più alimenti che li contengono, possono causare mal di testa, rossori e altre reazioni avverse, anche respiratorie. A favorire la crescita dei livelli di ammine biogene nel vino sono sia le pratiche in vigna che quelle in cantina. In vigna una eccessiva fertilizzazione azotata, la presenza di muffe e in genere le pratiche che incidono sulla qualità delle uve (in particolare sui valori del pH) aumentano il rischio di formazione di questi composti. Un mosto con elevato pH è a rischio di sviluppo indesiderato e prematuro di batteri, i principali agenti della decarbossilazione e quindi di produzione delle ammine biogene.

In cantina sono diverse le fasi a rischio. Nella fermentazione la scelta dei lieviti è un elemento particolarmente delicato perché alcuni sono più predisposti di altri alla produzione di ammine biogene. La macerazione, fase in cui aumentano gli aminoacidi precursori, il pH del vino, e c’è un’attività crescente di lieviti e batteri autoctoni, può diventare un fattore critico se la sua durata diventa eccessiva.

Come liberare il vino dalle ammine biogene: la ricerca di Sophie Parker Thomson

 width=La Thomson ha iniziato la sua indagine colpita dall’assenza di dati sui livelli di ammine biogene nei vini senza solfiti o a basso contenuto di solfiti, e sulla mancanza di approfondimenti sull’effetto dei diversi tempi di aggiunta degli stessi nell’ambito dei processi di vinificazione. La sua ricerca, che si focalizza proprio su questi aspetti, mostra che i vini con livelli di solfiti bassi o pari a zero hanno livelli di ammine biogene più alti e il momento di aggiunta dell’SO2 nella fase produttiva diventa determinante. Una quantità molto piccola di solforosa aggiunta al mosto in anticipo, cioè prima dell’inizio della fermentazione alcolica, renderebbe l’ambiente ostile ai batteri e sarebbe sufficiente per mitigare i rischi di accumulo di ammine biogene a causa degli effetti antimicrobici dell’SO2 totale. In altri termini l’aggiunta di solfiti nei giusti tempi consentirebbe all’enologo la libertà stilistica di impiegare anche tecniche che in assoluto favoriscono la proliferazione di ammine biogene come la fermentazione malolattica, la fermentazione spontanea, il contatto con le bucce e l’affinamento sulle fecce. Il mancato o tardivo intervento nell’aggiunta di anidride solforosa invece lascerebbe questi composti chimici nocivi per l’organismo libere di proliferare. La tabella tratta dal paper della Thomson mostra i valori medi di ammine biogene a seconda dei diversi regimi di impiego di SO2.  width= Si sfata così un consolidato luogo comune, quello che fino ad oggi è stato considerato un punto fermo, e cioè che siano i solfiti la principale causa di intolleranza al vino andando a sostenere l’esatto contrario, cioè che senza SO2 gli effetti indesiderati sono inevitabili. Le ricerche in campo medico scientifico dimostrano che i solfiti rappresentano un rischio per il 3-10% degli asmatici cronici e che la reazione in questi casi è costituita da problemi quasi esclusivamente respiratori. Si tratta di persone che devono evitare non solo il vino ma tutti gli alimenti che contengono solfiti perché sono a rischio anafilassi, da qui è nato l’obbligo di dichiarazione di presenza dei solfiti in etichetta.

Un nuovo punto di partenza?

Le evidenze della ricerca della Thomson sono molto importanti: considerato che il 10% della popolazione generale ha un problema di intolleranza al vino, eseguire un passaggio molto semplice nel processo di vinificazione e garantirne l’identificazione, cioè specificare in etichetta il conseguente basso contenuto di ammine biogene, consentirebbe un’apertura nei loro confronti perché si andrebbero a eliminare le temute reazioni avverse. Ovviamente la ricerca di Sophie Parker Thomson non può considerarsi definitiva e la riduzione dei problemi microbiologici associati alla produzione di ammine biogene nel vino richiede sicuramente ulteriori indagini. Vanno intraprese azioni collettive per diffondere meglio la relativa sicurezza della solforosa (SO2) e la sua utilità nell’ambito del settore vitivinicolo. Si può dire che ci troviamo di fronte a un punto di partenza, non certo di arrivo, nell’ambito di un percorso di evoluzione e miglioramento dei processi di produzione del mondo enoico, ma da quanto emerge da questo studio nulla esclude che il futuro del vino sia nell’”ammine biogene free” con tutte le conseguenze che questa condizione provocherebbe rispetto ad alcune certezze ed equilibri faticosamente raggiunti da almeno una parte del mondo produttivo.  width= [contact-form-7 id="1103" title="Form Articoli"]
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