Crescono i consumi di vini dealcolati. Produttori italiani divisi nel considerare il trend come opportunità o minaccia
In Europa si continua a discutere della regolamentazione per la produzione di vini parzialmente o totalmente dealcolati. Intanto, secondo un’analisi di Wine Intelligence, i consumi aumentano nonostante lo scetticismo dei produttori
Il tema della produzione di vini a basso contenuto alcolico o senza alcool è attuale quanto spinoso. Lo testimonia la situazione di impasse che vive l’Europa, dove a Bruxelles si discute da anni senza addivenire ad una regolamentazione che metta d’accordo i paesi membri.
Il dato di fatto, però, è che i consumi sono in aumento. Questi prodotti incontrano il favore di chi ha un approccio sempre più salutistico anche rispetto al bere, e di chi gli alcolici non può assumerli, per motivi religiosi o per patologie.
A ben vedere si tratta di un mercato che non si sovrappone ma si somma a quello dei consumatori di vino, che le aziende vitivinicole potrebbero cogliere come opportunità e non come minaccia, intercettando un consumo che al momento è in mano al settore delle bevande e dei soft drink.
Se si guarda alla piazza più importante al mondo per la vendita di vino, gli Stati Uniti, secondo una indagine dell’International Wine & Spirits Research la crescita aggregata da qui al 2024 arriverà a toccare le due cifre, sfiorando il 10%.
Ma i vini parzialmente o totalmente dealcolati vanno molto bene anche nei Paesi del Nord Europa e nei Paesi asiatici, con la Cina che si mostra sempre più attenta e interessata al segmento.
Siamo quindi di fronte ad un trend dall’impatto molto forte sull’industria globale del beverage, che ormai già da anni lavora a rivedere il suo paniere di offerta, per rispondere alla domanda di prodotti in linea con i concetti di benessere e salute.
In questo contesto il vino analcolico sta emergendo con forza, con una produzione che, secondo uno studio del 2019 dell’OIV (Organizzazione Internazionale della vigna e del vino), nel 2018 ha toccato nel mondo quota 100 milioni di bottiglie.
Certo si può discutere sull’opportunità o meno di riconoscere a questi prodotti l’appartenenza alla famiglia dei vini tout court, di cui a voler essere puristi, potrebbero non essere titolati a portare il nome. Così come sono dubbi diversi aspetti normativi oggetto delle trattative sui tavoli europei, in particolare l’ipotesi di estendere la produzione dei dealcolati oltre ai vini da tavola anche ai vini DOP e IGP.
Senza parlare degli effetti concreti che la riduzione dell’alcool determina sul prodotto finale. Maggiore acidità, maggiore astringenza e minore corredo aromatico sono tra le conseguenze inevitabili, dal momento che, per esempio, molti profumi vengono persi nell’applicazione delle tecniche di dealcolazione.
Alcuni produttori, per ritornare all’equilibrio perduto, potrebbero trovarsi costretti ad aggiungere disacidificanti, chiarificanti e dolcificanti che, certo, potrebbero funzionare in tutto, ma non in termini di autenticità ed eleganza del prodotto, e, di fatto, porterebbero ad una vera e propria costruzione in laboratorio.
Si perderà quindi in genuinità, raffinatezza, sentori e sapori. Ma cosa si guadagnerà? Cosa vuole davvero chi è alla ricerca di vini a basso contenuto alcolico?
Se guardiamo al mercato americano che, abbiamo detto essere ad oggi quello più sensibile alla questione, un recente report di Wine Intelligence ci dice che il fenomeno della crescita della loro domanda si inserisce in uno scenario più ampio di ridimensionamento del consumo di alcolici, soprattutto fra gli uomini.
Il 19% dei consumatori americani di vino infatti avrebbe dichiarato di aver iniziato ad evitare di bere, a ridurre cioè le occasioni, il 12% starebbe optando per bevande analcoliche, ed il 14% sceglierebbe prodotti di più basso tenore alcolico. Questo trend è significativo tra le giovani generazioni, i nati tra il 1995 ed il 2010 (Generazione Z) e quelli che vanno dai 21 ai 34 anni (i Millennials).
Guardando ad un contesto più ampio, oltre i confini statunitensi, Wine Intelligence ha sondato le opinioni dei consumatori nel Regno Unito, in Australia, Belgio, Canada Irlanda, Giappone, Olanda e Svizzera, soprattutto per comprendere le motivazioni alla base della preferenza di questi prodotti.
La prima motivazione forte e chiara di scelta di vini dealcolati, è che vengono considerati migliori per la salute (57%), ma, risultato inaspettato, a molti piace anche il sapore (48%), passando per la volontà di mantenere la lucidità ed il controllo di sé stessi (43%), e la scelta di prediligere un prodotto che ha meno calorie dei vini convenzionali (40%).
L'opportunità chiave per i produttori di vini totalmente o parzialmente dealcolati starà nel concentrarsi sui target specifici di potenziali bevitori - Generazione Z e Millennial – nel far leva sui vantaggi funzionali di supportare uno stile di vita improntato alla moderazione, insieme a benefici come un minor apporto calorico e sapori più leggeri e freschi. Senza considerare l’accesso al segmento di coloro che vedrebbero aprirsi un mondo negato per le condizioni di salute o per motivi religiosi.
Tra i produttori italiani le perplessità sono ancora tante e le posizioni divergenti. Alcuni ritengono che dire no alla produzione di vini dealcolati rappresenti, di fatto, una rinuncia ad una fetta del mercato che verrà aggredita da altri settori, o peggio ancora, da aziende vitivinicole di altri paesi concorrenti. Altri considerano la resistenza al cambiamento doverosa in difesa della tradizione enologica del paese. Sarà il mercato a decidere le sorti della diatriba? Staremo a vedere. I tempi sono ormai maturi.
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