Il settore travel e il grande divario della personalizzazione: i risultati del nuovo studio Skift–Amperity
Studio Skift–Amperity: cresce il divario tra condivisione dei dati da parte dei viaggiatori e incapacità del travel di trasformarli in esperienze personalizzate
Il mondo del viaggio sta vivendo un momento di trasformazione profonda, le abitudini dei viaggiatori cambiano con una rapidità che fino a pochi anni fa sarebbe stata impensabile. Chi si muove oggi non cerca più semplicemente un volo conveniente o un hotel confortevole, ma un’esperienza che lo rispecchi, lo interpreti e lo accompagni, un viaggiatore abituato alla personalizzazione quotidiana degli algoritmi che si aspetta la stessa precisione anche quando pianifica una vacanza o un viaggio di lavoro.
A quanto pare però le aspettative non troverebbero conferma nella realtà. A evidenziarlo è lo studio “The personalization gap - Bridging ambition and execution in travel data strategy” realizzato da Skift e Amperity.
Secondo la ricerca l’83% dei consumatori sarebbe pronto ad aprire porte sui propri dati, condividere informazioni personali in cambio di esperienze più rilevanti ma molte aziende continuerebbero a non saper cogliere questa grande opportunità. Il report rivelerebbe un divario sconcertante, tra clienti pronti a collaborare è un’industria che non saprebbe ancora gestire le informazioni in modo da offrire la personalizzazione che promette.
Il 92% dei leader intervistati affermerebbe che i dati sono fondamentali per la crescita, ma solo il 14% sarebbe realmente in grado di integrarli in un ecosistema unico, una forbice impressionante che non descrive una difficoltà tecnologica ma una mancanza strutturale di capacità.
La verità è che il travel sembra vivere ancora di una personalizzazione di facciata con campagne che sembrano customizzate ma che non lo sono affatto: un nome buttato in un’email non è infatti personalizzazione, come non lo sono un’offerta generica inviata a un intero database o una raccomandazione di volo che ignora tutte le preferenze già espresse.
Il settore continuerebbe a illudersi perché ha un’àncora di salvezza apparente, i programmi loyalty, ma anche qui lo studio sarebbe chiarissimo. Le aziende si sentirebbero forti nell’analizzare il comportamento dei membri fedeli, ma ignorerebbero quasi completamente i non iscritti che rappresenterebbero quasi la metà dei viaggiatori. In altre parole il travel conoscerebbe bene solo i clienti che già conosce, lasciando fuori proprio quelli che avrebbe più bisogno di conquistare.
E poi c’è la grande illusione dell’intelligenza artificiale: il 70% delle aziende prevederebbe di adottarla, convinta che l’AI sia la panacea del settore. Ma solo il 10% si riterrebbe davvero pronto. Una promessa enorme senza fondamenta dal momento che l’AI non può costruire personalizzazione dove i dati sono fragili, sporchi o sparpagliati. Senza una base solida, rischierebbe solo di amplificare gli errori, automatizzando ciò che già non funziona.
E allora il punto si fa inevitabile: il problema non sarebbe la mancanza di dati, ma l’incapacità di farli dialogare. Lo studio indicherebbe la strada con estrema chiarezza, costruire un profilo unificato del viaggiatore, un’unica identità che raccolga dati storici e segnali in tempo reale, capace di attraversare tutte le divisioni aziendali, solo così si potrebbe passare da una personalizzazione dichiarata a una personalizzazione vissuta.
Finché questo non accadrà, il travel continuerà a vivere nel suo paradosso, con i viaggiatori pronti a essere conosciuti e le aziende non ancora attrezzate per conoscerli davvero. E in un mondo che corre verso esperienze sempre più su misura, questa non è solo un’occasione persa, è un rischio strategico che il settore non può più permettersi.
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