Dry farming: dalla scossa californiana a una possibile prospettiva europea?
Perché il dry farming, reso trasparente in etichetta, potrebbe diventare leva di sostenibilità e posizionamento per il vino europeo.
AMBIENTE E SOSTENIBILITÀ - La notizia che arriva dalla California è un segnale: tra falde sotto pressione, regole più rigide e costi crescenti, molte cantine stanno ripensando l’uso dell’acqua. In questo contesto il dry farming, cioè coltivare senza irrigazione sistematica, puntando su suoli vivi, radici profonde e rese più misurate, torna d’attualità.
Non è una pratica solo europea, esistono storiche parcelle asciutte in California, il secano in Cile, il dryland in Sudafrica e il dry-grown in Australia, la differenza è che in Europa l’asciutta è più radicata e spesso incardinata nei disciplinari, una cornice condivisa più che una scelta isolata.
La domanda iniziale resta semplice: quanti consumatori sanno che in gran parte dei vigneti europei non si irriga, se non in emergenza? Se la consapevolezza fosse bassa, come quasi sicuramente è, dirlo in modo chiaro e verificabile potrebbe creare valore, specie presso un pubblico più giovane e sensibile alla sostenibilità.
In un mercato che si allarga a nuovi territori di qualità, Cina compresa, non tutti coltivano a secco e molti impianti nascono strutturalmente irrigui, proprio per questo rendere visibile il risparmio idrico frutto di tradizione e gestione del suolo potrebbe diventare un vantaggio competitivo esplicito e facile da confrontare oltre le denominazioni.
Per evitare slogan e ambiguità, l’etichetta potrebbe parlare in modo semplice e controllabile: “Dry-farmed – coltivato senza irrigazione sistematica”. Non si partirebbe da zero, perché in altri mercati alcuni produttori riportano già “Dry-Farmed” in etichetta o nel nome del vino, in Cile compaiono riferimenti a “Secano/Dry Farmed”, in Oregon reti di cantine promuovono apertamente l’asciutta e in Spagna ricorrono menzioni a “viñedos de secano”.
In Europa la dicitura potrebbe rimandare con un QR a una scheda essenziale che mostri quanta acqua d’irrigazione si è evitata rispetto a uno scenario locale in cui si irriga, sia per ettaro sia per bottiglia, come media di tre vendemmie; per confronti più onesti tra territori, i valori dovrebbero essere ponderati per la scarsità idrica locale e accompagnati dall’impronta idrica complessiva calcolata con uno standard riconosciuto, con verifica terza per evitare qualsiasi ombra di greenwashing. Per chiarezza verso il pubblico internazionale, converrebbe ricordare esplicitamente che “dry-farmed” riguarda l’irrigazione e non la dolcezza del vino.
Servirebbero però chiarezza e onestà dal momento che il dry farming può dare vini più identitari e di grande precisione ma spesso comporta rese più basse. Dirlo aiuterebbe a leggere il prezzo e a riconoscere l’impegno del produttore. Se l’annata è estrema, un’irrigazione di soccorso misurata e tracciata non snaturerebbe il messaggio, anzi, lo renderebbe più credibile, l’importante sarebbe spiegare quando e come si è intervenuti.
Conviene anche non confondere i piani, biologico e dry-farmed non sono la stessa cosa. Il primo riguarda gli input e le pratiche ammesse, il secondo l’uso dell’acqua e in etichetta sarebbe meglio tenerli distinti. Per chiarezza verso i mercati esteri, vale ricordare che “dry-farmed” parla di irrigazione, non di gusto “secco”.
E, non ultimo, per non apparire dogmatici vale la pena riconoscere anche i limiti. In certi contesti l’irrigazione di precisione o il deficit mirato potrebbero risultare molto efficienti sia sul piano idrico sia su quello enologico, il messaggio, dunque, non dovrebbe diventare un assoluto. Un focus esclusivo sull’acqua blu rischierebbe di essere parziale perché sostenibilità significa anche energia, carbonio, packaging, acqua di cantina, suolo e biodiversità.
La comparabilità tra regioni è inoltre delicata: i litri “evitati per bottiglia” dipendono da rese, fonte idrica sostituita e clima, perciò indicare anche il dato per ettaro, la baseline locale e un indice di scarsità riduce le asimmetrie senza eliminarle del tutto. La misurazione con verifica terza comporterebbe poi oneri organizzativi ed economici che peserebbero soprattutto sulle aziende piccole. Qui l’impegno di consorzi e istituzioni potrebbe fare la differenza, perché una regia pubblico-privata che standardizzi metodo e strumenti, centralizzi i dati pedoclimatici, negozi condizioni con enti terzi e attivi cofinanziamenti o forme di certificazione di gruppo con campionamento basato sul rischio potrebbe abbattere il costo unitario e la burocrazia senza intaccare l’indipendenza della verifica, con voucher o fondi dedicati a coprire la quota più onerosa per i micro-produttori mantenendo un “muro” tra chi finanzia e chi certifica.
Esiste poi un rischio di incentivo distorto, se l’etichetta diventasse obiettivo qualcuno potrebbe rinunciare a irrigazioni di soccorso necessarie pur di “restare dry”; regole chiare sulle deroghe e tracciabilità aiuterebbero a prevenire questo esito.
Infine, tra QR, claim e punteggi, parte del pubblico potrebbe non distinguere “dry-farmed” da “dry = secco”, una micro-spiegazione in etichetta eviterebbe il fraintendimento. E i dati cambiano nel tempo: medie triennali smussano la volatilità ma non la cancellano, indicare come e quando si aggiornano ridurrebbe il rischio di contestazioni.
Se restiamo al merito, la risposta alla domanda “è più sostenibile?” è sfumata ma utile: un vino dry-farmed potrebbe legittimamente dirsi più sostenibile dal punto di vista dell’acqua, perché riduce o azzera i prelievi irrigui soprattutto dove la risorsa è scarsa. Per ambire a un “più sostenibile” in senso ampio servirebbero però altre evidenze (suolo, biodiversità, energia e carbonio) che la scheda collegata al QR potrebbe iniziare a rendere visibili senza appesantire l’etichetta.
Insomma la scossa californiana potrebbe offrire una prospettiva con cui leggere meglio l’Europa trasformando una prassi storica, più istituzionalizzata che altrove, in un valore esplicito e verificabile. Dire quando non si irriga, come si mantiene vivo il suolo e quanta acqua non si è consumata potrebbe convertire un’abitudine data per scontata in un’informazione semplice, misurabile e comparabile, esattamente la trasparenza che il mercato globale, sempre più sensibile alla sostenibilità, si aspetta e che potrebbe restituire anche un maggior senso al valore delle produzioni.






