Fresco Cocktail Shop a Como: da 16 anni mixology, qualità e accoglienza in 30 posti

L'intervista di Nicole Cavazzuti ad Andrea Attanasio, titolare di Fresco Cocktail Shop uno street bar elegante che ricorda un bar d’albergo... senza l’albergo

8 Sett 2025 - 14:09
Fresco Cocktail Shop a Como: da 16 anni mixology, qualità e accoglienza in 30 posti

BAR, MIXOLOGY E COCKTAIL - Il nome, Fresco Cocktail Shop, è già una dichiarazione d’intenti: qui si usano solo materie prime fresche. Siamo a Como, poco fuori le mura antiche, e da 16 anni il locale di Andrea Attanasio è un riferimento per i cocktail lovers.

Il locale

Due sale, nessun dehors. La prima è dominata dal nuovo bancone verde con ricami in foglia d’oro, realizzato dalla storica azienda Silik del Canturino. La seconda, più raccolta, ha sedute basse e un tavolino con in vetrina il rotavapor. In tutto, appena 30 posti. 

Il soffitto a cassettoni in legno e le pareti in pietra di Moltrasio, originali dei primi del ’900, dialogano con vetro, lampade dorate e toni scuri, creando un’atmosfera calda e avvolgente.

La drink list

La carta è un racconto in forma liquida: ogni drink è un frammento di ricordi, viaggi, esperienze. I cocktail – dai nomi che sembrano usciti da una sceneggiatura, come Mr. Red, Mr. Green, Mr. Gold – intrecciano emozione, territorio e sperimentazione.
C’è il liquore di camomilla distillato da Attanasio secondo la ricetta dei nonni, una variante del Daiquiri, e persino un’etichetta di idromele disegnata dal figlio. La carta non svela tutto: preferisce accennare, stimolare curiosità e dialogo. Così il bar diventa un luogo di racconto, dove l’ingrediente segreto è il tempo condiviso.

Tra le proposte in menù:

  • Mr. Red: twist del Bloody Mary con mezcal.
  • Mr. Beige: Sour con liquore artigianale alla camomilla da ricetta di famiglia di 150 anni.
  • Mr. White: White Lady rivisitato con triple sec distillato con agrumi comaschi.
  • Mr. Green: gin, cetriolo, lime e bordatura di sale al timo.
  • Mr. Black: Daiquiri costruito attorno a una bottiglia di rum bloccata da Fidel Castro negli anni ’90.
  • Mr. Gold: Old Fashioned con rye whiskey scelto da una singola botte in Kentucky.

L'intervista

Andrea Attanasio, ai tempi del Covid avevi ridotto i posti a sedere. Perché non li hai più aumentati?
Sì, prima avevo 40 posti. Ne ho persi 10 e all’inizio sembrava un problema. In realtà, col senno di poi, è stata una scelta vincente: preferisco lavorare con qualche posto in meno e avere più tempo per ogni tavolo. E sai che è successo? La gente ha risposto bene. Quando sono più tranquilli, spendono di più.

Dieci posti in meno, dunque, ma un servizio più curato?
Esattamente. In 50 mq riempire come una scatola di sardine non ha senso. Il guadagno extra non giustifica la perdita di qualità, né del servizio né della vita. E qui a Como la percentuale di stranieri è cresciuta tantissimo. Nove volte su dieci, mi lasciano più soldi di quelli che chiedo.

Hai mantenuto la prenotazione obbligatoria?
Sì, ma sono flessibile. È un servizio agli ospiti, così non rischiano di venire a vuoto. Inoltre, mi permette di gestire situazioni delicate: se arriva qualcuno in condizioni poco consone, basta un “Avete prenotato?” “No.” “Mi dispiace, siamo pieni.” È un modo educato per tutelare l’esperienza degli altri clienti.

In 16 anni, com’è cambiata Como?
Tantissimo. Più che un cambiamento, direi un’esplosione, specie dopo l’Expo 2015.

E Clooney è stato una leva per il turismo?
Sì, ha aiutato molto, ma più per la visibilità del brand “Como” che per il mondo del cocktail. Oggi senti parlare tutte le lingue, tutto l’anno.

A livello di mixology, quali sono stati i cambiamenti principali?
Sono cambiati i grandi alberghi: aprono agli esterni e trattengono gli ospiti con un’offerta completa. Prima chi soggiornava usciva, ora resta. La concorrenza è con i 5 stelle. Ma siamo nella parabola discendente: non c’è più l’ossessione del cocktail ovunque. I locali tornano a specializzarsi.

Il tuo staff oggi è completamente internazionale. Una novità?
Sì. Satish, il mio bartender, è un ragazzo d’oro e sta imparando l’italiano. Qualche anno fa era il contrario: dovevi parlare italiano. Oggi è l’opposto, e la gente apprezza. Un locale dove si può parlare inglese è percepito come un valore aggiunto.

Perché hai scelto di avere una piccola cucina?
Per tre motivi. Primo, perché il cibo traina il bere. Senza contare che oggi la patente è una preoccupazione, quindi offrire cibo ti permette di bere con più consapevolezza. In secondo luogo, è un’evoluzione naturale. Dopo 16 anni, non puoi innovare solo con nuove ricette. Infine, per il valore percepito. Offro un’esperienza completa: welcome drink, acqua in bicchiere di cristallo, due piattini di assaggi (freddo e caldo).

Il cocktail best seller?
Il mio Bloody Maria servito nel mixing glass con una sfera di ghiaccio e un calice: puoi fare il refill, puoi condividerlo. È più elegante e il drink non si diluisce.

In vetrina esponi il rotavapor: è uno strumento davvero per un bartender?
Dipende da come lo utilizzi. È uno strumento e va conosciuto. Personalmente, lo uso solo per due drink, tra cui una variante del Gibson Martini. Il rotavapor mi serve per distillare aglio fermentato, lattuga e cipollotto. E con l’acqua aromatica che ne ricavo diluisco il Martini, al posto del ghiaccio.

È vero che oggi è boom di zero e low alcol?
I dati del mercato lo confermano, ma non so se sia una tendenza reale o un trend spinto dalle aziende. Io gli analcolici li ho sempre fatti, comunque.

La ricetta per avere successo?
Non esiste. Ogni locale ha la sua clientela e il suo stile. L’errore è cercare di omologarsi, di replicare quello che funziona. Spesso mi hanno chiesto consulenze dicendomi: “Voglio aprire un locale come il tuo”. Non ne faccio un discorso di bravura, ma la magia non si può copiare. La ricetta giusta non esiste. Se la sposti, non è detto che funzioni.

Andrea, parliamo di te. Quando hai messo piede dietro un bancone?
Nel 1999, avevo 13 anni. Mia madre ha firmato un’autorizzazione per farmi spillare birre in un pub. Era un Harley-Davidson Pub a Luisago, con le pareti piene di Jack Daniel’s. Da lì non ho più smesso: discoteche, freestyle, tequila servita direttamente in bocca...

Che rapporto hai oggi con il bar?
Amo il bar. Amo la notte. Il bar è camaleontico. Alle 18 puoi servire un chirurgo appena uscito dall’ospedale, alle 2 una escort che ha finito il turno, alle 21 una famiglia con figli. È un mondo che cambia di ora in ora.
Sto leggendo un libro in cui c’è una frase che mi ha colpito: invece che cercare di essere il migliore, cerca di essere migliore. Basta togliere “il” e cambia tutto. Io cerco sempre di superare me stesso.

Come riesci a conciliare lavoro e famiglia?
Il Covid è stato decisivo. Ho capito che non serviva fare mille progetti. Ho smesso di scappare: prima il Fresco era la mia gabbia dorata, oggi è il mio centro. Lavoro meglio, sono più presente per mio figlio (che ha appena compiuto 10 anni) e per mia moglie. A volte chiudere per due settimane è la scelta giusta.

Collabori con Velier da anni. Com’è nato questo rapporto?
La collaborazione è cominciata nel 2010. Inizialmente ero solo un cliente: compravo i prodotti perché mi piacevano. Poi è diventata una collaborazione vera. Con Andrea Marelli, venditore, è nata un’amicizia solida. Con Luca Gargano c’è grande stima. Lo storytelling dei prodotti Velier è autentico, non marketing.

Facciamo il gioco della torre tra due spirit. Quale tieni e quali butti?
Tengo il rum, senza dubbio, e butto la grappa.

Il tuo drink preferito?
Difficile sceglierne uno solo. Il Daiquiri mi rappresenta, ma anche un buon Martini, un Old Fashioned. Dipende. I miei collaboratori ridono perché ogni volta rispondo in modo diverso. Se non conosco il barista e non mi fido, però, ordino un Negroni. È difficile da sbagliare.

Al contrario, il classico che proprio non sopporti?
L’Espresso Martini.

Photo Credits: Nicole Cavazzuti

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