Crisi del vino in Europa: gli espianti sono davvero la soluzione?
La recente presa di posizione della Germania sugli espianti in Europa riapre il dibattito su come affrontare la crisi che sta attraversando il mondo del vino
VINI E DINTORNI - Nel mondo del vino, dalla Francia alla Spagna, dalla California alla Germania, il dibattito oggi sembra cristallizzato su un’idea tanto intuitiva quanto rischiosa, quella di ridurre le superfici per ridurre i volumi. Per un’equazione facile - troppi ettolitri, meno acquirenti, cantine colme - una conclusione scontata, quella di estirpare, magari con una stampella pubblica. Ma la semplicità è spesso nemica delle soluzioni durature, specie se la crisi è figlia dell’incrocio di consumi fiacchi, costi in ascesa, tensioni commerciali e un clima aspro.
In questo contesto il vecchio strumento degli espianti assurge ambiguamente a panacea, figlio della stagione 2009-2011, oggi rilanciato con forza nel consesso europeo. La Germania lo ha riportato all’Agrifish chiedendo una cornice comune per gli stati membri, mentre la Francia ha già mosso passi concreti e in Italia la discussione divide. Il fatto è che la reazione alla crisi dei consumi non può essere un riflesso condizionato perché la diagnosi può essere corretta ma la terapia rischia di non esserlo altrettanto.
Se è vero infatti che l’offerta è strutturalmente più abbondante della domanda, che le giacenze gravano soprattutto sui rossi d’ingresso e i segnali di prezzo non bastano a riassorbire l’eccesso, non si può negare che puntare tutto sull’estirpazione potrebbe risolversi nello scambiare la chirurgia di precisione con l’amputazione.
Si potrebbe rischiare di perdere capacità produttiva in modo difficilmente reversibile, si potrebbero impoverire paesaggi e tessuti economici che sul vino hanno costruito accoglienza, artigianato e ristorazione; si potrebbe cadere nell’errore di cancellare senza fare selezione, mescolando impianti ad alto potenziale con vigneti obiettivamente marginali; si sposterebbe il problema, perché a fronte di un’operazione non coordinata alcune aree continuerebbero a produrre molto mentre altre resterebbero vuote, con benefici incerti sui prezzi medi e danni certi dove si andrebbe a tagliare.
Un eventuale piano europeo avrebbe senso solo cambiando paradigma. Servirebbe un intervento chirurgico, non a pioggia, finalizzato a concentrare i tagli sui vigneti più intensivi e meno sostenibili, proteggendo collina e montagna, dove la vite presidia suolo, biodiversità e identità. Andrebbero previste condizionalità ambientali e agronomiche per evitare che i terreni estirpati possano diventare incolti e focolai di malattie, con ripristino del suolo e progetti d’uso alternativi credibili.
Avrebbe senso introdurre l’idea di un estirpo “a tempo”, una pausa tra tre e otto anni per alleggerire l’offerta e consentire reimpianti più coerenti con il mercato e con il clima, così da trasformare il taglio in una finestra di riconversione e non in un punto di non ritorno.
In parallelo bisognerebbe congelare le nuove autorizzazioni nelle aree in surplus ed evitarne l’apertura altrove senza un chiaro fabbisogno, perché è illogico estirpare da un lato e piantare dall’altro. E, soprattutto, andrebbero evitati sussidi all’abbandono fine a sé stesso perché il denaro pubblico dovrebbe accompagnare competitività e transizione, non essere il mandante della desertificazione.
E prima ancora degli estirpi occorrerebbe far valere le regole, perché deroghe che mantengono rese eccessive, controlli disomogenei sui flussi di mosti e sfusi e scarsa differenziazione di prezzo tra uve generiche e a denominazione drogano il mercato più di quanto non faccia un ettaro in più o in meno. Stringere queste maglie produrrebbe benefici immediati senza sradicare un solo filare, restituendo coerenza al segnale di prezzo e premiando davvero qualità, tracciabilità e conformità.
La cooperazione è l’altro snodo decisivo, metà dell’uva italiana passa dalle cantine sociali ma molte realtà restano sottodimensionate e poco integrate a valle, con troppo valore ceduto alla cisterna. Le risorse pubbliche dovrebbero sostenere fusioni quando necessarie, investimenti in competenze (agronomi, enologi, figure commerciali ed export) e una logistica capace di accorpare le vinificazioni senza perdere qualità.
Il sistema avrebbe l’opportunità di spostare l’asse dalla quantità al valore. Ciò significherebbe riconversione varietale verso segmenti in reale sviluppo, senza inseguire mode cieche, agronomia pensata per il clima che cambia, con portainnesti, forme di allevamento e gestione della chioma capaci di contenere zuccheri e alcol, prodotti e formati che parlino ai consumi effettivi, con gradazioni più misurate, packaging leggero e comunicazione trasparente.
Esisterebbero anche alternative più leggere dell’estirpo di massa, dalla distillazione di crisi come tampone con obiettivi chiari e durata limitata al ritiro selettivo delle eccedenze attraverso meccanismi di asta che indirizzino l’aiuto dove il surplus è strutturale; strumenti assicurativi legati a pratiche ambientali, e dati pubblici, granulari e tempestivi su superfici, rese e giacenze, perché decidere al buio porta a sbagliare in grande.
Francia, Germania e Italia stanno giocando partite diverse della stessa sfida: Parigi interviene con decisione nei territori più in sofferenza, Berlino invoca una regia comune, Roma privilegia la riconversione con cautela sugli estirpi. Tutte le posizioni sono legittime a patto che confluiscano in un pacchetto organico fatto di regole applicate, selettività, trasparenza dei numeri e competenze diffuse.
L’errore sarebbe trasformare uno strumento in una dottrina. Estirpare può sembrare la scorciatoia perfetta, meno vino oggi, prezzi migliori domani, ma senza una mappa precisa del dove, quanto, come e con quale progetto successivo diventa una scommessa costosa che lascia macerie economiche e paesaggistiche.
L’Europa del vino non deve semplicemente ridursi ma riallinearsi, con meno ettari dove non c’è futuro, più valore dove la vite è cultura ed economia, e soprattutto regole chiare applicate davvero, solo così la cura non rischierà di uccidere il paziente.

Leggi l'articolo anche su CanaleVino.it






