Massimo Stronati: ''Il mondo del bar è diventato globale''

Nicole Cavazzuti intervista Massimo Stronati, bar manager e consulente italiano trapiantato in California

25 Sett 2025 - 16:30
Massimo Stronati: ''Il mondo del bar è diventato globale''

BAR, MIXOLOGY E COCKTAIL - Cosa accomuna un bar di Milano a uno di San Francisco, Bangkok o Tel Aviv? Sempre più spesso, la risposta è: quasi tutto. Dai bicchieri sottili ai cubi di ghiaccio, dalle garnish invisibili alle tecniche da laboratorio, il mondo della mixology ha adottato un linguaggio globale. Eppure, in mezzo a questa omologazione apparente, restano identità forti, radici, accenti locali. A raccontarcelo è Massimo Stronati, bar manager e consulente italiano trapiantato a Palo Alto, in California, osservatore privilegiato di un mondo che cambia — shaker in mano.

Il tema della qualità, della freschezza e della preparazione “al momento” è diventato centrale nei bar. Dove nasce questo approccio?
Tutto comincia tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 con figure come Dale DeGroff, e poi Sasha Petraske, che ha rivoluzionato la scena con il suo Milk & Honey a New York. L’idea era chiara: trattare il cocktail come un prodotto artigianale, vivo, non industriale. Si inizia a usare ghiaccio grande, si spremono gli agrumi al momento, si abbandonano i fusti. Fino a quel momento, nei bar — anche quelli importanti — si trovava il cranberry juice alla spina. Oggi sarebbe impensabile. Anche grazie a bar come Trick Dog, True Laurel, ABV, o a locali come il Pacific Cocktail Haven, che hanno fatto della freschezza e della ricerca una missione.

Vivi e lavori nella Bay Area: quali sono le differenze principali rispetto al bere italiano?
A Milano c’è ancora un’enorme passione per il gin. Quando lavoravo al Morgante, avevamo 190 etichette. Qui a San Francisco ne tengo 6 o 7. Il mercato è diverso: vanno di più vodka, whisky americano, tequila e mezcal. Negli USA è normale trovare nei supermercati decine di tipi di zuccheri, sali, amarene: un’offerta che in Italia è ancora molto limitata. E poi, in particolare a Las Vegas, il bar è uno spettacolo: trovi bottiglie da collezione, cocktail da diecimila dollari. In Italia il Negroni è un rituale; qui non lo chiedono. I drink più ordinati sono long drink semplici: vodka & soda, whisky & soda, gin & soda, o cocktail signature. La tradizione italiana, qui, resta di nicchia.

Qual è oggi il ruolo dei bartender italiani?
I bartender italiani sono ovunque, e spesso con ruoli chiave. Un esempio è Marco Dognini, conosciuto nel settore come Marco Dongi: oggi è bar manager al W Bangkok. È la dimostrazione di come ci si possa formare in Italia e poi diventare riferimento a livello globale. A Miami, soprattutto in inverno, si incrociano flussi internazionali, e italiani come Jacopo Rosito, ex bar manager del Four Seasons, sono riconosciuti e rispettati.

Il bartender italiano che apprezzi di più nel mondo?
Te ne cito tre. Innanzitutto, Simone Caporale, per il suo lavoro sul pairing tra cocktail e cucina. Ho lavorato di recente con lui a New York ed è stato molto interessante. A Barcellona, con il progetto Sips Essentia, Simone ha portato la mixology a un altro livello. Ha creato un menu degustazione dove ogni piatto è abbinato a un cocktail pensato per esaltarne il sapore. I drink sono serviti in bicchieri da vino o da degustazione, senza ghiaccio, con guarnizioni precise, spesso profumate con tecnologie come la Flavour Blaster. Uno dei suoi cocktail più sorprendenti, per l’evento newyorkese, era a base di argilla, per evocare il gusto minerale dell’acqua di fiume. È un’idea che va oltre il bere per piacere: qui si entra nella sfera della narrazione sensoriale, del racconto liquido. Non so se sia stato lui a iniziare questo filone, ma di sicuro l’ha reso visibile a tutti. Poi apprezzo moltissimo Filippo Sisti, per il suo lavoro sulla cucina liquida, e Oscar Quagliarini, un genio.

Siamo in una fase di grande omologazione. Esistono ancora identità locali forti?
Oggi il bar è diventato un sistema interconnesso: New York, Londra, Milano, Dubai, Bangkok — si influenzano a vicenda. Ma parlare di “omologazione” in senso negativo è sbagliato. Preferisco dire che esiste una grammatica comune, un set di tecniche condivise. Le differenze esistono ancora. A San Francisco, ad esempio, il Martini si fa shakerato, senza vermouth. In Europa, il vermouth è parte fondante. In America, i supermercati offrono una varietà incredibile di zuccheri, sali, spezie: in Italia questa disponibilità è ancora limitata. Anche il design si è globalizzato: oggi a Milano usiamo gli stessi bicchieri con il chunk di ghiaccio che trovi a Tokyo. Ma questo non significa che l’identità sia sparita. Sta nei dettagli. Nella scelta degli ingredienti, nella mano del bartender, nella storia che ogni cocktail racconta.

Quindi, alla fine, il mondo del bar è davvero diventato globale?
Sì. È un mondo dove tutto viaggia velocemente, ma dove chi ha uno stile riconoscibile riesce però ancora a distinguersi. Non serve più essere a Londra o New York per bere bene. Puoi bere bene ovunque.

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