La Valpolicella patria dell’Amarone, vino iconico nato da un errore
Scoprire la Valpolicella significa viaggiare in una terra ricca di storia e cultura, patria di uno dei prodotti dell’enologia italiana più famosi al mondo, l’Amarone, vino iconico nato da un errore.
Situata nell’area occidentale del Veneto, tra Verona e il lago di Garda, delimitata a nord dalla barriera naturale dei monti Lissini, attraversata da vallate solcate da piccoli e tumultuosi torrenti chiamati progni, la Valpolicella si estende per circa 250 km² con 6000 ettari di vigneti che dal fondo si arrampicano su per le colline.
Uno scenario in cui colori e prospettive mutano di continuo regalando paesaggi in cui a fare da sfondo non è solo la natura ma anche il contributo dell’uomo nell’interazione con l’ambiente in cui si è calato nei secoli: un itinerario di bellezze bucoliche con i suoi boschi, le cascate, le cave di pietra, ma anche ricco di storia e cultura come testimoniano pievi romaniche, ville rinascimentali, piccole chiesette di campagna e numerosi esempi di architettura rurale.
Non è un caso che da luglio del 2021 la Valpolicella sia stata iscritta nel registro nazionale dei paesaggi rurali storici, grazie anche alle tradizioni e pratiche secolari come quella delle marogne, i muretti a secco che nel tempo hanno modificato e reso caratteristico il territorio, arte riconosciuta dall’Unesco come patrimonio immateriale dell’umanità.
Oltre a disegnare i profili delle colline con lunghe cordonature parallele che delineano i terrazzamenti, realizzate con la tecnica a lisca di pesce tipica di queste zone, la funzione delle marogne è quella di rendere il terreno più sicuro evitando il dilavamento provocato dalle piogge e garantire la biodiversità, ma sono diventate vessillo dell’identità e dell’unicità di questi luoghi, espressione di un ambiente e di una comunità, un simbolo in stretto connubio con un altro elemento paesaggistico essenziale: la vite.
La sua storica coltivazione, che in questi territori fa la sua comparsa fin dall’antichità, è confermata dall’etimologia: “val polis cellae” significherebbe infatti “la valle delle molte cantine”. A favorirne la diffusione l’unicità geologica e il clima dei luoghi che rendono la Valpolicella terra di elezione per l’allevamento di straordinarie varietà autoctone. A ciò si aggiungono le abilità tecniche sviluppate, come quella dell’appassimento, che si tramandano in queste terre dal tempo dei romani.
Origini e clima
Il territorio della Valpolicella si distingue per la sua storia geologica particolarmente varia, ricca e complessa, che si divide in due periodi: quello marino, che risale a oltre 100 milioni di anni fa, e quello delle terre emerse caratterizzate negli strati inferiori da calcari compatti e in quelli superiori da pietre fossili. Prima che fenomeni sismici favorissero l’emersione dei rilievi collinari oggi osservabili, infatti, la Valpolicella era completamente coperta dal mare, come testimoniano i numerosi reperti archeologici del sito di Bolca, in particolare i fossili di pesci. La dimensione marina ha lasciato in eredità depositi calcarei gialli, rosati, e bianchi dai quali si ricavano pregiati marmi. Al periodo di emersione corrispondono invece depositi di natura calcareo-marnosa e tufi basaltici risultanti dei fenomeni vulcanici. Alle glaciazioni dell’era quaternaria si deve la formazione del lago di Garda, della valle dell’Adige, delle grandi vallate e delle lunghe dorsali collinari che costituiscono oggi la Valpolicella. Un contributo alla morfologia dei luoghi venne anche dalle stratificazioni costituitesi dopo numerose alluvioni e dall’azione erosiva svolta dai corsi d’acqua. Date queste premesse si comprende come la Valpolicella sia considerata vocata alla viticoltura, una terra che raccoglie l’eredità di formazioni calcare-dolomitiche, di materiali morenici e fluviali di origine vulcanica, di basalti, non può che vantare uno scheletro dalle numerose sfaccettature che si traducono in una connotazione in termini enologici che varia da una microzona all’altra. Sono terreni poveri di una viticoltura di alto profilo se è vero che quando il suolo è meno generoso la vigna esprime il più alto potenziali qualitativo. Il clima è reso eccezionale da una esposizione solare ottimale dal momento che le colline, aree di elezione per la coltivazione delle viti, si affacciano a sud. Il freddo mantiene nelle uve gli acidi tartarico e malico, quelli che donano sontuosità ai vini; la relativa vicinanza del Garda preserva i grappoli dalle gelate. Le correnti pedemontane provenienti dai monti Lissini determinano forti escursioni termiche tra il giorno e la notte, la piovosità si mantiene su buoni livelli e il terreno strutturalmente gode di proprietà drenanti che lasciano defluire l’acqua.Storia e viticoltura
La Valpolicella, terra ospitale, è sempre stata scelta dall’uomo ed intensamente abitata fin dai tempi più remoti. Gli scavi della Grotta di Fumane collocano i primi insediamenti neaderthaliani nel periodo compreso tra 90mila e 45mila anni fa e i successivi ad opera dell’Homo Sapiens. Molte popolazioni nel corso dei secoli hanno abitato le sue valli, tra cui Arusnati, Romani, Scaligeri, Veneziani, e la vite è sempre stata loro compagna di viaggio. Secondo i ritrovamenti di alcuni scavi a Castelrotto, sembrerebbe che la vitis raetica si coltivasse già dal V secolo a.C. Il suo nome deriverebbe dal toponimo Raetia con cui si indicava il territorio che comprendeva il Tirolo e la Lombardia fino a Verona. A confermarne la diffusione le testimonianze di Plinio il Vecchio che indicava il vinum Rhaeticum come tipico della zona, le descrizioni di Catone che tesseva le lodi dell’uva retica, e i racconti di Svetonio, Virgilio e Marziale che sottolineavano come fosse particolarmente caro all’imperatore Augusto ed immancabile in occasione dei sui banchetti. Cassiodoro invece, ministro del re dei Visigoti Teodorico, descrive in una lettera l’Acinatico, il vino il cui nome deriva dall’acino (Acinaticum) prodotto in Valpolicella, ottenuto con una speciale tecnica di appassimento delle uve. Il suo racconto parte dalla vendemmia in autunno, con i grappoli che vengono poi appesi capovolti e conservati in recipienti naturali. Il frutto appassisce, senza decadere e “trasudando insipidi umori” diventa soavemente dolce. Si conserva fino a dicembre, dal momento che in inverno si completa il processo di essicazione e “in modo mirabile in cantina ci si trova con un vino nuovo mentre nelle altre c’è un vino vecchio”. Dalle parole di Cassiodoro si può dire che dall’Acinatico discenda per linea diretta quello che in Valpolicella è oggi noto come Recioto, il vino dolce ottenuto con la stessa tecnica, scegliendo i grappoli migliori e di essi la parte migliore, le “recie”, espressione dialettale che indica l’orecchia, la sezione alata del grappolo, quella più ricca, nutrita e dolce perché più esposta al sole.L’Amarone: quando un vino iconico nasce da un errore
Quando si parla di Valpolicella è inevitabile associare queste terre all’Amarone, vino frutto degli autoctoni Corvina, Rondinella e Corvinone. Se si pensa che oggi è tra i rossi italiani più conosciuti al mondo e rappresenta il 20% dell’intera produzione locale, è incredibile constatare che la sua nascita, a differenza di altre perle della storia enologica, sia di fatto frutto di un errore. Fin dal tempo dei Romani, infatti, i vini più importanti e graditi tra quelli prodotti in queste terre erano dolci, vini acinati, da appassimento, favoriti dal clima e dalle caratteristiche delle uve autoctone. Accanto al vino secco quotidiano, il Valpolicella, c’era il Recioto, un prodotto di nicchia che si otteneva selezionando le parti migliori dei grappoli lasciati appassire per alcuni mesi in fruttaio. La fermentazione veniva costantemente monitorata per individuare il momento in cui andava bloccata esponendo le botti alla neve e al freddo. Si otteneva un vino estremamente dolce ma al tempo stesso equilibrato grazie alla acidità di base elevata. Capitava però che la fermentazione “scappasse al controllo”, che andasse oltre il momento in cui andava bloccata, cosicché gli zuccheri venivano meno e nelle botti restava un vino secco che in dialetto veronese ancora oggi è chiamato “recioto scapa’”, un prodotto non apprezzato e venduto a un prezzo molto basso. La leggenda attribuisce al cantiniere Adelino Lucchese la paternità del nome: pare infatti che nel 1936 assaggiando una botte di Recioto dimenticata in cantina da qualche anno esclamò: “questo vino non è amaro, è un amarone”. La situazione mutò nel periodo post bellico, quando i contadini, per sottrarre i loro migliori vini ai saccheggi dei nazisti, li muravano in cantine alle quali non potevano avere accesso per periodi molto lunghi. Molte botti di recioto fermentarono del tutto e il vino fu imbottigliato e messo in commercio senza però avere ancora una specifica identità. Bisognerà attendere il 1950 per la prima etichetta di Amarone prodotta dalla cantina Bolla. Ben presto arrivò il successo che si è consolidato negli ultimi venti anni con un trend di crescita che non si arresta. I segreti del vino principe della Valpolicella sono tanti: dall’incredibile varietà dei suoli che da una collina a un’altra donano connotazioni differenti ai vini, al blend complesso che lo costituisce, ad un rito della vendemmia che è eseguita ancora rigorosamente a mano, alle tradizionali e antiche tecniche di appassimento. E poi la sua natura di vino che sorprende, spiazza, si presenta con una illusione di dolcezza nonostante sia secco, qualcosa che non ti aspetteresti immaginando che nasce dopo l’appassimento; si fa amare come vino da meditazione che ha bisogno di ritualità, attenzione e dedizione, come quella delle sapienti mani di chi lo mette.
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