Microvinificazioni: uno studio della Penn State rivoluziona la ricerca enologica su piccola scala
Uno studio dimostra che la microvinifcazione è affidabile, economica e utile per prevedere la chimica del vino, anche su scala produttiva ridotta
VINI E DINTORNI - Da sempre, produrre vino è un’arte che poggia su una scienza complessa, dove dietro ogni bottiglia si cela un intricato intreccio di fattori, dalla composizione chimica dell’uva, all’azione dei lieviti e di altri microrganismi, dalle condizioni ambientali alla gestione del vigneto. Comprendere e controllare questa rete di variabili è la sfida quotidiana di enologi e ricercatori.
Per affrontarla, la ricerca scientifica si è affidata a lungo a fermentazioni sperimentali su scala pilota, solitamente da 20 litri, in grado di simulare in laboratorio ciò che avviene in cantina, esperimenti che richiedono tempo, spazio, personale e risorse economiche considerevoli.
L’idea di lavorare su volumi molto più ridotti, appena 50 millilitri, meno di un bicchiere, ha sempre suscitato diffidenza, per timori legati alla variabilità dei risultati, all’eccessiva esposizione all’ossigeno e alla difficoltà di ottenere dati rappresentativi.
Oggi queste perplessità vengono messe in discussione da un team di scienziati della Penn State University guidato da Misha Kwasniewski, professore associato di ricerca in scienze alimentari presso la Facoltà di Scienze Agrarie, che ha condotto una ricerca approfondita sulle microvinificazioni.
Lo studio, pubblicato sull’American Journal of Enology and Viticulture e sostenuto del National Institute of Food and Agriculture del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti, ha dimostrato che le fermentazioni su scala ridottissima non solo sono affidabili, ma possono addirittura diventare un punto di svolta per la sperimentazione enologica, offrendo una via più snella e accessibile per studiare la chimica del vino.

In particolare, i ricercatori che hanno lavorato per valutare l'affidabilità delle microvinificazioni nel replicare fedelmente i processi chimici osservabili nelle fermentazioni su larga scala, si sono concentrati sull’assorbimento di ossigeno, sull’estrazione di composti fenolici e sul rilascio di sostanze aromatiche, elementi fondamentali per determinare colore, struttura e profilo olfattivo del vino.
Contrariamente a quanto temuto nel settore, i risultati delle microvinificazioni si sono rivelati sorprendentemente costanti e comparabili a quelli ottenuti con fermentazioni pilota.
Non sono emersi segni di ossidazione eccessiva, né variazioni significative nella qualità del prodotto. Le analisi hanno evidenziato che fattori come temperatura, tempo di macerazione e gestione del cappello, ovvero il trattamento delle bucce durante la fermentazione, influenzano il profilo chimico del vino in modo simile a quanto accade su scala più ampia.
Lo studio ha incluso prove su uve Chambourcin e Noiret, entrambe trattate con gli stessi procedimenti (diraspatura, pigiatura manuale e aggiunta di lieviti). Gli esiti hanno confermato che, con un numero adeguato di repliche e una corretta gestione sperimentale, la microvinificazione può fornire indicazioni affidabili per prevedere la chimica postfermentativa del vino.
Le implicazioni di questa ricerca sono significative dal momento che le microvinificazioni possono diventare uno strumento prezioso per migliorare l’efficienza della ricerca enologica, facilitare sperimentazioni rapide e a basso costo, e supportare decisioni strategiche nella produzione vinicola senza la necessità di impegnare grandi volumi di uva o risorse.
Questa nuova prospettiva potrebbe contribuire a superare le resistenze ancora diffuse nel settore, favorendo una maggiore diffusione di approcci sperimentali su piccola scala nella viticoltura moderna.

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