Whisky: non più solo Irlanda, Scozia, Kentucky e Canada

L'India guida la produzione mondiale di whisky con 260 milioni di casse. Boom anche in Germania, Francia, Taiwan e Italia con distillerie emergenti.

6 Ottobre 2025 - 16:35
Whisky: non più solo Irlanda, Scozia, Kentucky e Canada

BAR, MIXOLOGY E COCKTAIL - L’India è oggi il primo produttore mondiale per volumi: nel 2024 ha superato i 260 milioni di casse vendute, con una crescita annua del 7,6%. (Fonte: Rare Whisky 101)

E non è tutto. I whisky indiani d’origine – cioè distillati da malto o cereali – rappresentavano già nel 2022 oltre il 50% del mercato locale, superando in volumi persino lo Scotch importato. (Fonte: The Whiskey Wash)

A guidare questo boom c’è Amrut, distilleria fondata nel 1948, che ha iniziato a produrre whisky tradizionali negli anni ’80 e ha lanciato il suo primo single malt nel 2004. Ma c’è anche l’industriale Imperial Blue, nato nel 1997 sotto Seagram e passato a Pernod Ricard nel 2001: da 500mila casse a oltre 22 milioni nel 2013, oggi è un bestseller del subcontinente.

Chi ha inventato il whisky? Scozia o Irlanda? Poco importa

A cambiare non è solo la geografia, ma anche chi lo beve. “Un tempo era roba da uomini maturi. Oggi lo apprezzano anche donne e giovani, curiosi e competenti”, osserva l’esperto di settore Giuseppe Rondani.

L’Europa che non ti aspetti

Tra i primi outsider ci sono i tedeschi, che hanno cominciato a distillare whisky negli anni ’80. Oggi sono il primo produttore europeo fuori dal Regno Unito. Un esempio è la distilleria Fleischmann, fondata nel 1980 in Baviera come azienda di brandy e passata al whisky nel 1996. Oggi propone single malt in edizione single cask come Blaue Maus, Grüner Hund, Old Fahi e il grain whisky Austrasier.

Anche la Francia, tra Bretagna e Alsazia, ha sviluppato una tradizione viva. L’Inghilterra è tornata a distillare dopo una lunga pausa iniziata nel 1903. La Danimarca ha da poco pubblicato il suo primo manifesto del whisky artigianale. Produzioni di nicchia si trovano anche in Svezia, Finlandia, Olanda e persino Russia.

Dalle Americhe all’Estremo Oriente

In America, il whisky è storia antica. Arrivò nel ‘700 con gli immigrati scozzesi e irlandesi. In Kentucky e Tennessee nacque il bourbon, fatto col mais. Il rye, invece, è a base di segale ed è molto diffuso negli USA e in Canada. Oggi le nuove distillerie spuntano come funghi, con un occhio di riguardo alle produzioni premium.

Nel Sudafrica, il whisky ha trovato casa nella James Sedgwick Distillery, fondata nel 1886 a Wellington, attiva sul whisky dal 1990. Il marchio Three Ships nasce come blend tra Scotch importato e distillato locale, oggi arricchito da versioni come il Single Malt 10 anni lanciato nel 2003.

Asia: rigore giapponese, corsa cinese, numeri indiani

In Giappone si distilla dal secolo scorso, seguendo la scuola scozzese. Dopo il rilancio degli anni ’80, i whisky nipponici sono oggi tra i più premiati al mondo. Meticolosi, eleganti, riconoscibili.

Anche la Cina si è mossa: decine di distillerie, anche firmate Diageo e Pernod Ricard, stanno adottando lo stile Scotch. Il whisky vale solo il 2% del mercato alcolico cinese (dominato dal baijiu), ma cresce rapidamente, spinto dal gusto per il lifestyle occidentale.

Taiwan ha fatto il salto di qualità con Kavalan, marchio nato dopo la fine del monopolio statale sugli alcolici nel 2002. Oggi è considerato un punto di riferimento globale.

Israele e Italia: piccoli numeri, grandi idee

Israele è ancora su scala artigianale, ma con idee chiare. A Tel Aviv, la distilleria Milk & Honey è attiva dal 2013 e propone whisky kosher apprezzati anche all’estero. Nei Golan Heights, Golani produce whisky, gin e arak da grani locali e acqua di sorgente. La scena è giovane, ma in fermento.

Anche l’Italia ha riscoperto il whisky. La pioniera è Puni, in Alto Adige, attiva dal 2015. Oggi sul mercato si contano una decina di etichette, tra cui Poli (Veneto), Psenner (Alto Adige), Exmu (Sardegna). Altre stanno aspettando che il tempo faccia il suo lavoro nei barili. Le zone più vivaci? Nord, Toscana e Sardegna. I numeri sono piccoli, ma la qualità comincia a farsi notare.

Whisky indiano: l’oro liquido della nuova India

Pensi che i maggiori produttori di whisky siano gli americani? Sbagliato. Nel 2024, l’India ha superato i 260 milioni di casse vendute, diventando il primo produttore mondiale per volumi, con una crescita annua del 7,6%​(​fonte: Rare Whisky 101)​. E non si tratta solo di quantità. I whisky indiani autentici – distillati da malto o cereali, secondo gli standard internazionali – rappresentavano già nel 2022 oltre il 50% del mercato nazionale, superando lo Scotch importato​ (​fonte: The Whiskey Wash)​.

Una rivoluzione silenziosa, iniziata con Amrut Distillery, fondata nel 1948, che ha lanciato il suo primo single malt nel 2004​, in Italia distribuita da Velier. A dominare i volumi c’è anche Imperial Blue, nato nel 1997 sotto Seagram e oggi bestseller del gruppo Pernod Ricard, con oltre 22 milioni di casse vendute già nel 2013.​ Ora che il whisky giapponese è entrato nell’Olimpo globale, l’India vuole essere la prossima a salire sul podio.

Dal mito al mercato: la ​storia del whisky indiano ​I​l whisky in India è figli​o​ del colonialismo britannico. Portato dal Raj come prodotto per ufficiali e aristocratici, divenne col tempo simbolo di status e modernità, grazie anche alla sua diffusione nei film di Bollywood.​ Negli anni ‘80 e ‘90, il boom della domanda interna portò alla nascita di numerosi prodotti economici venduti come “Indian whisky”. Ma qui è doveroso chiarire: molti di questi non erano veri whisky.​ Erano infatti realizzati a partire da alcol neutro derivato da melassa, con una piccola aggiunta di malto d’orzo e aromi. Queste bevande, sebbene etichettate come whisky nel mercato interno indiano, non avrebbero potuto usare legalmente questa denominazione in Europa o negli Stati Uniti, dove la normativa richiede che il whisky sia distillato esclusivamente da cereali fermentati.

Oggi, tuttavia, questa è solo una parte del passato. L’India ha compiuto un salto qualitativo notevole, e oggi distillerie come ​la già citata Amrut, John Distilleries e Rampur producono veri single malt, capaci di competere a livello internazionale.

Rampur Distillery: orzo indiano, ambizioni globali

Terzo produttore nazionale per importanza, Rampur si trova nell’Uttar Pradesh e custodisce oltre 40.000 botti in invecchiamento. Utilizza orzo locale proveniente dal Rajasthan e adotta metodi di distillazione che richiamano la tradizione europea, ma con una marcia in più: il clima tropicale.

In India, infatti, l’angel’s share – la parte di whisky che evapora ogni anno – può raggiungere il 12%, contro l’1-2% della Scozia. Di conseguenza, “tre anni in India valgono dieci in Europa”: l’invecchiamento qui è una questione di intensità più che di calendario.

La distilleria ha un visitor center da fare invidia alla Scozia: ampie vetrate sugli alambicchi, poltrone in pelle, bancone in legno massiccio. Ma non è il design a raccontare l’India del whisky: è la visione.

Finiture creative, spirito indiano

Rampur non si limita a riprodurre lo stile scozzese. Il suo whisky “ASAVA” viene rifinito in botti di vino rosso indiano, una scelta unica nel panorama mondiale. Altri invecchiamenti passano per botti ex-Porto, ex-Calvados o ex-IPA.​ Per il 75° anniversario, la distilleria ha rilasciato una bottiglia celebrativa frutto di tre cask selezionati, diventando così il whisky più costoso mai prodotto in India.

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