Mario Calderone, Duddell’s, Hong Kong: ''Oggi si beve per i social, non per divertirsi''

Palermitano, classe 1984, Mario Calderone vive a Hong Kong da 10 anni. Nicole Cavazzuti lo ha intervistato tra un dim sum e un drink d’autore

24 Ottobre 2025 - 12:17
Mario Calderone, Duddell’s, Hong Kong: ''Oggi si beve per i social, non per divertirsi''

BAR, MIXOLOGY E COCKTAIL - Fine dining cantonese, cocktail bar, galleria d’arte. Il Duddell’s è tutto questo insieme, ma soprattutto è uno dei luoghi più emblematici di Hong Kong: incastonato in un edificio d’epoca al numero 1 di Duddell Street, a pochi passi dalle ultime lampade a gas rimaste accese in città. Lì, tra una mostra di arte contemporanea e un dim sum d’autore, c’è anche un bar. A guidarlo è un italiano: Mario Calderone.

Palermitano, classe 1984, Mario Calderone ha fatto la sua gavetta tra caffè serviti d’estate a Palermo e cocktail preparati per il jet set londinese. Dopo una parentesi australiana, è approdato a Hong Kong nel 2015. Oggi è Beverage Manager del gruppo JIA e Salon Manager al Duddell’s, dove ha creato una drink list che dialoga con la cucina cantonese premiata dalla guida Michelin, con il ritmo della città e con il nuovo modo — estetico e social — di vivere l’esperienza del bere.

Lo abbiamo incontrato al Duddell’s per parlare di cocktail, clienti, expat, Instagram, nostalgia e Martini. Un’intervista che inizia a Palermo e finisce, idealmente, su una sedia in Sicilia, davanti a una persiana, al sole.

Allora, Mario. Chi sei?
Sono di Palermo. Vivo a Hong Kong da dieci anni. Prima di arrivare qui, dieci anni a Londra e un anno in Australia. Ne ho quarantuno.

Quando hai iniziato a stare dietro al bancone?
A quindici anni. Palermo. Il bar sotto casa. Estate. Niente alcol, solo caffè e frighi da riempire. Ma da lì ho iniziato a osservare la vita da una fessura: la fessura del bancone. È un punto di vista unico, credimi.

Quindi autodidatta?
Sì. Un anno di ragioneria, un anno di alberghiero, poi via. Bar il pomeriggio e pizze da consegnare la sera. A Palermo si cresce lavorando. O si resta fermi.

Cosa ti affascinava, a quindici anni?
Gli habitué. Quelli che non cambiano mai ordine. Che ti raccontano la vita tra un caffè e l’altro. A un certo punto ho conosciuto uno che sembrava uscito da un libro di Bukowski. Beveva tutto il giorno, ma era coltissimo. Faceva la guida turistica. Una delle frasi che mi ricordo di lui era: “Fammi bere dieci minuti di birra e andiamo. Non sai quanta birra riesco a buttare giù in dieci minuti".

Ti sei mai fermato, dopo?
Mai. Londra, Australia. A Londra ho fatto Zuma e Novikov. VIP ovunque, persino membri della Royal Family. Dustin Hoffman, Samuel L. Jackson… Ma mi mancavano il sole e il mare. Così sono partito per l’Australia: Perth, Brisbane. Bellissima da vivere, ma lavorativamente non mi ha incantato.

E Hong Kong?
Mi chiamò un amico: c’era da fare l’apertura di Fishsteria. Poi arrivò Honi Honi Tiki Lounge, dove sono rimasto quattro anni. Un tiki bar. All’inizio ero scettico: ho sempre preferito giacca e cravatta e fine dining. I dreadlock sotto controllo. Ma ho imparato tantissimo. La cultura tiki è un cult, un po come Star Wars: o la ami, o niente.

Ma lavori in un posto formale. Come ti guardano, con i dreadlocks?
Al primo colloquio la CEO mi chiese: “Questi capelli si possono sistemare?” All’inizio li tenevo raccolti e nascosti, poi sempre meno. Ora ho dreadlock da dieci anni.

E al Duddell’s come sei arrivato?
Nel 2020, con il settore in crisi e il Covid che aveva fermato tutto, Honi Honi ha dovuto riorganizzarsi. Ho deciso di prendermi tre mesi sabbatici. Poi è arrivata la chiamata di Duddell’s: ho cominciato come salon manager e oggi sono beverage manager per tutto il gruppo JIA.

Com’è lavorare in un ristorante cantonese da expat?
All’inizio è stato difficile. Il personale era lì da anni e a ogni mia iniziativa mi rispondevano: “Noi non facevamo così.” Ho impiegato sei mesi a conquistare la fiducia del team. Adesso, dopo cinque anni al Duddell’s, abbiamo una squadra bellissima.

Cosa ti piace ancora del bar?
La gente. Le storie. I dettagli. Ma il mondo è cambiato: oggi tanti clienti bevono solo per farsi fotografare col cocktail, non per divertirsi. L’uscita non è più fine a se stessa: è materiale da postare.

Come gestisci questo cambiamento?
Adatto il menù. Meno alcol, più concetto. Cocktail a basso grado alcolico, tè frizzanti, esperienze per chi non beve alcohol.
Sembra triste, ma in realtà è stimolante, dal punto di vista creativo.

Cosa pensi dei bar che fanno da bere solo ciò che decide il bartender?
Non mi piace. Il bar deve accogliere, non giudicare. Il cliente vuole un Gin Tonic? Glielo fai. Non siamo chef con il menu degustazione. Il bar è chiacchiera, è compagnia, non egocentrismo.

Sei sui social?
Poco. Se mi taggano, riposto. Ho un account: foto di cocktail e sigari. Sono lento a pubblicare, ma controllo tutto. Quando ho saputo che saresti venuta, ho guardato il tuo profilo. Fa parte dell’ospitalità.

Il tuo drink preferito?
Classico: Martini. Quello che rifiuto? Forse il vino. Non mi dice nulla. Preferisco uno champagne o un buon Negroni.

Il distillato che ami di più?
Il gin è quello che bevo di più. Il rum, quello che amo raccontare.

E oggi? Vivi a sette minuti a piedi dal lavoro, in centro. Ma costa tanto?
Gli affitti sono molto alti a Hong Kong. Ma tutto è proporzionato: stipendi, sicurezza, qualità della vita. A Hong Kong puoi lasciare un telefono su una panchina: lo ritrovi. In Europa, ormai, no.

Cosa vuoi fare da grande?
Godermi una vita semplice con la mia famiglia. Una sedia, una persiana, il sole e il mare della Sicilia. Tornare a casa, dove il tempo scorre più lento. A cinquant’anni, massimo 55, vorrei chiudere col bar e aprire ad altro: leggere di più, scrivere, vivere una vita più calma.

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