Radio Bar Tirana: ecco il locale che dal 2009 è sinonimo di miscelazione di qualità in città
Nicole Cavazzuti ha visitato Radio Bar Tirana e intervistato il titolare Redi Panariti
BAR, MIXOLOGY E COCKTAIL - Tirana cambia. Apre cantieri, si allarga, si illumina. Ma c’è un angolo della capitale dove il tempo sembra essersi fermato. Si chiama Radio Bar, ed è qualcosa di più di un semplice locale: è un rifugio di memoria e di stile, un luogo dal sapore antico.
Siamo nel cuore del Blloku, il quartiere un tempo riservato ai gerarchi del Partito e oggi cuore pulsante della vita notturna. Radio Bar sta lì dal 2009, come a dire che la rivoluzione, qualche volta, passa anche da un banco bar.
Varcarne la soglia è come entrare nella soffitta ordinata di una Tirana che non vuole dimenticare. Radio d’epoca, insegne smaltate, macchine da scrivere, bottiglie disposte con cura. E a far da cornice, musica selezionata, mai invadente. Un arredamento che parla, che racconta.
Non ci sono fronzoli, ma dettagli. I tavoli in legno hanno la patina delle cose vissute. Le luci calde accompagnano la conversazione. C’è chi viene per un drink, chi per un ricordo, chi per entrambi.
La drink list è un altro racconto. Oltre ai grandi classici fatti come si deve – Manhattan, Negroni, Pisco Sour, Margarita, Old Fashioned – ci sono creazioni della casa: come il “Mid Summer in Paradise”, un Sour floreale affumicato con semi di cardamomo, con sciroppo di fiori di sambuco, Gin Nordès, bitter di pompelmo rosso e un ingrediente segreto che regala una tinta rosa creato dal head bartender Jetmir Qose.
Il padrone di casa si chiama Redi Panariti. Lo incontro il 3 novembre a Tirana, nel locale che ha costruito pezzo per pezzo. È un uomo che pesa le parole come pesa i cocktail. Ha fatto esperienza in Liguria, ha portato l’Italia nel cuore e nei gesti.
“Qui la gente torna”, dice. “Anche chi vive all’estero. Perché si sente a casa. Forse perché ha lasciato qui qualcosa di suo”. E in effetti, dentro a queste mura non c’è solo arredamento: c’è un pezzo di storia. Un cliente ha lasciato la macchina da scrivere del padre. Un’altra ragazza ha appeso la sua tesi di laurea sopra il bancone.
È come se ciascuno avesse portato un oggetto per dire: ci sono stato anch’io.
E il Radio li conserva tutti. In silenzio, con rispetto. Come si fa con le cose importanti.

L'intervista
Partiamo dall’inizio. Era il 2009: quali sono state le tappe principali del Radio Bar?
Il primo anno avevamo solo cinque tavoli e tredici sedie. Era praticamente vuoto. Lo spazio era lo stesso di oggi, ma con pochissimi arredi. All’epoca si poteva ancora fumare nei bar, e ricordo bene che il nostro banco era sempre pieno di amici o di clienti che, col tempo, abbiamo iniziato a introdurre alla cultura del bere.
Quanti anni avevi quando avete aperto?
Avevo 31 anni. Oggi ne ho 48. All’inizio eravamo solo io e il mio socio: lui si occupava della musica, io facevo tutto il resto.
Venivi già da esperienze nel settore?
Sì, arrivavo da nove anni di lavoro in Italia, in Liguria: Sanremo, Alassio, Imperia, Porto Maurizio e anche a Monaco. Lì ho fatto esperienza vera. Ho frequentato corsi professionali Ibis e ho partecipato a concorsi. Non ho vinto, ma a 23 anni ero tra i migliori del mio corso. Per me era già un traguardo importante.
Hai mai conosciuto Dom Costa?
Certo, lo conoscevo bene. Andavo spesso nel suo locale ad Alassio. Era una figura di riferimento. Il suo locale "Liquid", tra l’altro, è in un edificio che appartiene a un amico italiano che vive a Diano Marina. Frequentavamo spesso quell’ambiente: un cerchio che si chiude.
Torniamo al Radio Bar. Come sono stati i primi mesi?
All’inizio abbiamo faticato. Abbiamo aperto ad aprile, ma il locale aveva un’anima più invernale. La gente ha cominciato a conoscerci solo verso settembre-ottobre. I pochi che venivano si chiedevano se un posto così avrebbe mai funzionato.
E poi cosa è successo?
Da ottobre in poi, è cambiato tutto. La gente ha iniziato a parlare di noi: dicevano che c’era musica buona, bei cocktail, un’atmosfera diversa. E da lì abbiamo cominciato a crescere. Sempre.
Quante persone lavorano oggi al Radio Bar?
Siamo in 24-25. Un bel team.
Il tuo socio è ancora con te?
No, dopo otto anni ha preso un’altra strada. Era un regista, ora vive a New York con la sua famiglia. Abbiamo costruito tutto insieme, avevamo lo stesso stile, lo stesso approccio. Lui curava la musica e l’arredamento, io la parte operativa. Era un’intesa perfetta.
Eravate i primi, all’epoca?
Sì, eravamo gli unici con quel tipo di locale. Poi, negli anni successivi, altri ci hanno seguito. Molti ci hanno detto che li abbiamo ispirati, gli abbiamo dato il coraggio di aprire qualcosa di diverso.
Com’è cambiata la clientela dopo il Covid?
Abbiamo vissuto tre grandi cambiamenti. Il primo è stato generazionale: i nostri primi clienti oggi hanno figli, si sono sposati, le loro vite sono cambiate. Ma molti tornano ancora, anche solo per un drink. Poi, ovviamente, c’è stato l’impatto del Covid, che ha cambiato ritmi, abitudini, ma non il legame con il locale.
Hai mai pensato di cambiare l’ambiente?
Sì, ci ho pensato più volte. Ma ogni volta ho deciso di lasciare tutto com’era. La gente viene anche per i ricordi. C’è chi si è conosciuto qui, chi si è fidanzato, chi si è sposato. Adesso vengono con i figli e vogliono sedersi allo stesso tavolo. È bellissimo.
Ci sono clienti affezionati che vivono all’estero?
Tantissimi. Ogni volta che tornano in Albania, vengono al Radio. Hanno lasciato qui parte dei loro ricordi, ed è come se tornassero a casa.
Parliamo della musica. Che ruolo ha avuto nel vostro successo?
Fondamentale. All’inizio mettevamo solo jazz ed elettronica: funky, groove. Era una proposta diversa. Gli altri bar mettevano la radio, qualcuno lo fa ancora. Che errore! Un locale deve avere un’identità. La musica, l’arredamento, la luce, il comfort... tutto fa parte dell’esperienza.
Hai sempre avuto un DJ, quindi?
Sempre. Un DJ fisso, pagato regolarmente. Fa parte della nostra identità. Anche oggi, ogni giorno — tranne il weekend, quando facciamo eventi — lui viene e prepara la selezione per la serata. La playlist non si tocca: è parte del mood del locale.
Il locale è aperto anche di giorno?
Sì, apriamo alle 10 del mattino. Offriamo colazioni leggere: caffè, toast, panini. È una fascia oraria che ci serve anche per gestire il locale, per sistemare, per ricevere forniture.
Radio Bar è quasi un museo... richiede molta manutenzione?
Tantissima. Cambiamo decine di lampadine al mese, perché l’arredamento è vintage, le prese sono vecchie. Quando il locale è pieno, a volte basta sfiorare un oggetto e cade. Va tutto mantenuto con attenzione.

Hai un consiglio per i giovani bartender?
Sì. Lo dico sempre ai ragazzi: “Fai un drink che gradiresti tu. Assaggialo sempre. Se non è calibrato, non darlo al cliente. E se il cocktail che hai ideato non lo berresti nemmeno tu, eliminalo subito dal tuo ricettario” Il punto è che prima dello show, prima della tecnica, bisogna capire il gusto. Solo dopo puoi lavorare sulla forma e sulla creatività.
Quindi prima il contenuto, poi il contenitore?
Esatto. Prima ancora di shakerare, devi saper fare un buon Dry Martini. Quando un cliente mi chiede un drink da uno dei miei ragazzi, per me è un grande orgoglio. Significa che siamo sulla strada giusta.
Il locale è sempre aperto?
Sempre. Anche la domenica. In 17 anni abbiamo chiuso solo per il lockdown e una volta sola per rifare il pavimento in legno. Una sola sera: il giorno dopo eravamo già aperti.
E questi oggetti sparsi nel locale? Da dove vengono?
Non sono tutti nostri. Circa il 20% ci è stato donato dai clienti. C’è chi ci ha lasciato la macchina da scrivere del padre, un noto regista albanese. Oppure una nostra amica ha lasciato qui l’insegna che aveva realizzato per la sua tesi di laurea in comunicazione. Altri hanno portato vecchie radio di famiglia. Le loro case erano cambiate, ma qui quegli oggetti trovano un posto. Li rivedono ogni volta che tornano. È un modo per sentirsi a casa.
Un legame affettivo fortissimo...
Esatto. È come se ci avessero lasciato un pezzo della loro casa nella nostra. Una cosa bellissima, che rende questo posto ancora più vivo, più umano.
Collezioni anche riviste?
Sì, ne ho tantissime, solo dell’epoca comunista. E ci tengo molto.
Parliamo di recensioni online. Quanto contano?
Dipende. Sul web è una giungla. Rispondo di rado, solo a chi mi commuove. Per me, una vera recensione è quella che qualcuno si prende il tempo di scrivere per intero, con la macchina da scrivere del locale, parola per parola. Quella è una vera review.
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