Olivicoltura italiana: un piano, molte incognite

A fine 2025 la ripresa produttiva del settore olivicolo è un segnale positivo, ma il rilancio strutturale resta lontano e la transizione strategica da costruire

5 Nov 2025 - 12:39
Olivicoltura italiana: un piano, molte incognite

MERCATO - L’olivicoltura italiana arriva a fine 2025 con un quadro complesso e segnato dall’incertezza. Dopo un 2024 difficile, penalizzato dalla siccità e da rese in forte calo, le stime ISMEA per la campagna 2025/2026 indicano un ritorno sopra quota 300 mila tonnellate di olio d’oliva, con una produzione compresa tra 340 e 360 mila tonnellate, pari a circa +30% rispetto alla campagna precedente (248 mila tonnellate nel 2024/2025).

Un segnale di ripresa incoraggiante, sostenuto da condizioni di raccolta più favorevoli e da un rinnovato ottimismo tra gli agricoltori, ma che non basta ancora a definire un vero rilancio strutturale del comparto. I prezzi restano infatti elevati, tra 9,00 e 9,90 euro al chilo per l’extravergine nazionale, con punte oltre i 10 euro/kg nelle aree meridionali, un livello che riflette la scarsità del prodotto più che una piena valorizzazione industriale della filiera.

La prima impressione, osservando il comparto, è quella di un Paese che si muove in direzioni parallele ma non sempre convergenti. Il Sud, con Puglia, Calabria e Sicilia in testa, traina la ripresa con una sorprendente capacità di adattamento, anche grazie a investimenti regionali e cooperazioni territoriali. Il Centro e il Nord, invece, mostrano ancora segni di vulnerabilità, schiacciati da un clima imprevedibile, da parassiti aggressivi e da un modello produttivo che fatica a innovarsi. 

È in questo quadro che il Piano Olivicolo Nazionale da 300 milioni di euro dovrebbe entrare in azione. Il documento ministeriale, invocato per anni e finalmente definito nel 2025, rappresenta la promessa di un cambio di paradigma: rigenerare gli oliveti improduttivi, incentivare nuovi impianti, combattere la Xylella, valorizzare le produzioni Dop, Igp e Bio, promuovere un marchio “Evo di Alta Qualità” e favorire l’aggregazione della filiera. Un piano che nasce con visione e risorse ma che, come spesso accade, vede la distanza tra il progetto e la sua esecuzione ancora ampia.

Ad oggi la macchina amministrativa si muove con lentezza, le risorse non sono ancora pienamente operative e la governance di settore, pur avviata, non ha ancora assunto quella chiarezza di ruoli e responsabilità che servirebbe per trasformare la pianificazione in azione.

Il vero nodo, però, non è solo istituzionale, è culturale ed economico, con un’olivicoltura italiana che da troppo vive in una tensione tra valore simbolico e valore reale. Da un lato, l’extravergine come icona del made in Italy, sinonimo di qualità, biodiversità e tradizione, dall’altro, un prodotto che nei fatti resta ostaggio della logica del prezzo, della competizione al ribasso e delle vendite sottocosto e finché l’olio sarà trattato come una commodity e non come un bene di valore, ogni piano rischierà di tradursi in un’operazione di breve respiro.

Di fatto la qualità, da sola, non basta, va raccontata, organizzata e difesa lungo tutta la catena del valore. Ciò che manca ancora è un disegno condiviso, il settore ha bisogno di una organizzazione interprofessionale unica capace di unire produttori, frantoi e industria in una strategia comune, di un sistema informativo efficace per la tracciabilità, e di un’alleanza più solida tra ricerca e imprese.

La frammentazione resta la più grande nemica della competitività, e il rischio è che la pioggia di risorse pubbliche si disperda in mille rivoli locali senza incidere sulle debolezze strutturali.

La lezione che fino a questo momento si legge dalle evidenze del 2025 è duplice, da un lato, il settore ha dimostrato di saper reagire, ha retto agli shock climatici, ha ritrovato fiducia nei mercati e ha ottenuto l’attenzione del decisore politico, dall’altro, ha confermato che la resilienza da sola non fa sviluppo, servono visione, coordinamento e coraggio di pianificare a dieci anni, non a uno.

Il Piano Olivicolo Nazionale può essere il punto di svolta ma solo se diventa un patto concreto tra istituzioni e filiera. L’olivicoltura italiana è di fronte a un bivio, scegliere se restare una somma di eccellenze isolate o diventare un settore industrialmente maturo, capace di fare sistema. Il 2025 si avvia a consegnare un patrimonio di potenzialità, ma anche un avvertimento: le risorse non bastano, serve visione e questa, ancora, non si compra con un decreto.

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