Vino e longevità: la lezione di LeBron James, del biohacking e delle zone blu spiegata da Manuel Salvadori
Elisir di lunga vita o “veleno elegante”? Tra scienza, convivialità e biohacking, il nutrizionista Manuel Salvadori ci guida nel paradosso del calice
VINI E DINTORNI - A 40 anni molti sentono che il tempo ha già deciso il loro destino: la carriera, il corpo, le prospettive sembrano stabilizzarsi, influenzati dalla percezione di limiti progressivamente emergenti.
Non LeBron James. Sul parquet dell’NBA corre, salta e segna come se il tempo avesse scelto di fermarsi per lui. Miglior marcatore di tutti i tempi, ha da poco siglato l’ennesima sfida alla gravità e all’età, un’opzione da 52,6 milioni di dollari per restare con i Los Angeles Lakers fino al 2026. Non è solo un contratto, è la dimostrazione che la longevità può diventare una forma di arte, anche nello sport più logorante del mondo.
Cosa lo tiene così vivo, così integro, così competitivo quando altri avrebbero già appeso le scarpe al chiodo? Nessun trucco, nessuna magia. Dietro c’è disciplina, cura maniacale dei dettagli, attenzione al sonno, alimentazione studiata al millimetro, protocolli di recupero all’avanguardia e persino un rituale quotidiano tanto semplice quanto sorprendente: un bicchiere di vino rosso.
James non è solo un campione, è il volto di un approccio nuovo al benessere e alla performance, quello del biohacking. Un modo di vivere che non si accontenta di resistere al tempo, ma cerca di piegarlo, di riscriverlo.

Cos’è il biohacking e cosa c’entra il vino
Il termine può sembrare fantascientifico, ma è molto concreto: significa “hackerare” il proprio corpo per renderlo più efficiente, combinando scienza, nutrizione, allenamento e strategie di recupero. L’obiettivo è vivere meglio e più a lungo, mantenendo alte le prestazioni fisiche e mentali.
Chi pratica biohacking analizza i parametri del sonno, personalizza la dieta in base al DNA, usa tecniche di respirazione, digiuni mirati, integratori selezionati e tecnologie di monitoraggio. In questo approccio il vino non è un integratore miracoloso, ma un tassello culturale e sociale che, se gestito con consapevolezza, può contribuire al benessere complessivo.
«Il vino non è una farmacia»
A smontare con decisione i luoghi comuni è Manuel Salvadori, biohacker e biologo nutrizionista:
«Da anni circola il mito del vino rosso come fonte miracolosa di resveratrolo» racconta. «Gli studi ci sono: in laboratorio questa molecola ha mostrato proprietà anti-aging e cardioprotettive, agendo sui geni SIRT1 e migliorando la funzione endoteliale.
Ma c’è un problema: le quantità presenti in un calice sono ridicole. In media, tra 0,2 e 2 mg per bicchiere. Negli esperimenti sui topi, invece, servono centinaia di milligrammi al giorno.
Tradotto: per replicare gli effetti dovresti scolarti 200-300 bottiglie quotidianamente. Altro che centenario, diventeresti un caso clinico da Guinness World Record».
Poi sorride: «Il resveratrolo è interessante, ma il vino non è la tua farmacia. Dire che bevi vino per il resveratrolo è come dire che mangi patatine per l’olio di girasole: tecnicamente vero, praticamente ridicolo».
Non solo polifenoli: il vino come rituale sociale
Eppure nelle zone blu come Sardegna, Ikaria, Okinawa, Loma Linda, Nicoya, dove le persone superano i cento anni con sorprendente frequenza, il vino non è assente.
«La chiave non è il calice in sé, ma il contesto» precisa Salvadori. «In Sardegna si beve Cannonau, a Ikaria il vino rosso accompagna i pasti. Ma la differenza la fa la socialità. Bere da soli davanti alla TV è un acceleratore di malinconia, non di telomeri. Bere in compagnia, invece, è un rituale che riduce lo stress, stimola la dopamina, rafforza i legami. È il classico esempio di nutriente invisibile: non lo trovi in etichetta, ma incide sulla longevità quanto i polifenoli».
Il nutrizionista aggiunge: «Il bicchiere di vino a cena con gli amici non ti dà solo resveratrolo, ma anche ossitocina, connessione e appartenenza. Chi lo nega non ha capito che il vero anti-aging non è nel bicchiere, ma nelle persone attorno al tavolo».

Il compromesso: piacere e rischio
Poi arriva la parte meno piacevole, quella che Salvadori non edulcora: «L’alcol è tossico. Punto. Lo dicono i dati dell’OMS: aumenta il rischio di tumori, soprattutto esofago, fegato e mammella, e di malattie neurodegenerative. Non esistono dosi sicure, solo dosi meno rischiose».
Come fare allora? «Si può ridurre il danno. Primo: bere durante i pasti, perché il cibo rallenta l’assorbimento dell’alcol e riduce il picco ematico. Secondo: scegliere vini di qualità, meglio se biologici e con meno solfiti. Terzo: abbinarli a cibi ricchi di polifenoli, verdure, frutta, olio extravergine, che bilanciano gli effetti ossidativi. Infine, integrare con sostanze protettive come omega-3 e N-acetilcisteina, che in alcuni studi preliminari mostrano un’azione protettiva sul fegato».
Il paradosso del calice
E allora, vino sì o vino no? Salvadori risponde con una formula che racchiude tutto il senso della questione:
«Il vino non è un superfood. È un “veleno accettabile” che, se dosato e inserito nel contesto giusto, può persino comportarsi meglio di certi integratori venduti come panacee. È un paradosso culturale: troppo povero di resveratrolo per essere terapeutico, troppo ricco di convivialità per essere davvero dannoso. Alla fine, il vero elisir non è nel calice, ma in chi ti siede accanto».

Manuel Salvadori è un biohacker, nutrizionista e divulgatore scientifico riconosciuto per il suo approccio innovativo all’ottimizzazione della performance umana. Presidente della Scuola Italiana di Medicina Funzionale, unisce ricerca scientifica, nutrizione avanzata e medicina preventiva per promuovere benessere, longevità e alta performance. Con il suo podcast LifeX - primo tra i podcast per divulgazione sul biohacking e la medicina in Italia - e i contenuti digitali, diffonde conoscenza evidence-based contrastando miti e disinformazione nel settore salute e fitness.
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