Il Lazio del Cesanese del Piglio, il vino amato da imperatori e papi

Territorio dalla antica tradizione enoica, il Lazio può vantare da secoli una significativa ampiezza ampelografica che oggi i produttori sono impegnati ad esaltare soprattutto attraverso la valorizzazione dei vitigni autoctoni, tra i quali spicca il Cesanese del Piglio.

25 Marzo 2022 - 10:37
Il Lazio del Cesanese del Piglio, il vino amato da imperatori e papi
[mp3j track="https://horecanews.it/wp-content/uploads/2022/03/Il-Lazio-del-Cesanese-del-Piglio-il-vino-amato-da-imperatori-e-papi.mp3" Title="Ascolta la notizia in formato audio"] Territorio dalla antica tradizione enoica, morfologicamente eterogeneo, in cui si avvicendano mare, trecento chilometri di coste, pianure, colline e vulcani inattivi, costellato di borghi,  boschi e laghi che hanno preso il posto di quelli che erano minacciosi crateri, il Lazio può vantare da secoli una significativa ampiezza ampelografica, frutto dei diversi ambienti pedoclimatici che lo caratterizzano, una ricchezza spesso offuscata dalla grandiosità e centralità della Città Eterna che inevitabilmente tiene i riflettori puntati fortemente su di sé. Per una superficie vitata di quasi 28.000 ettari, sono circa 60 i vitigni ammessi alla coltivazione, l’80% dei quali a bacca bianca, Trebbiano e Malvasia di Candia in testa, con i rossi, che però destano sempre più l’interesse della critica enologica, rappresentando per molti la promessa di questo terroir. Oltre alle varietà più diffuse, Merlot, Sangiovese e Montepulciano, degni di nota tra i vitigni a bacca nera ci sono infatti varietà come Cesanese del Piglio e Nero Buono. I terreni di origine vulcanica ricchi di minerali e il clima caratterizzato dalle forti escursioni termiche, soprattutto nelle aree collinari, che favorisce la perfetta maturazione delle uve, sono alcuni dei punti di forza della regione. Il Lazio vitivinicolo può essere considerato diviso in aree che pur essendo molto diverse tra loro mantengono come comune denominatore la vocazione per la viticoltura di qualità. La parte settentrionale, in cui prevalgono i terreni di origine vulcanica, è articolata in numerose sottozone: Orvieto, Colli Etruschi Viterbesi, Vignanello, Tarquinia, Cerveteri e Colli della Sabina. Poi c’è l’area dei Castelli Romani con Zagarolo, Montecompatri Colonna, Marino, Colli Albani, Colli Lanuvini, Velletri e Frascati: qui sono concentrate numerose denominazioni, i suoli sono ricchi di ferro, condizione che dona ai vini grande sapidità. La zona meridionale comprende Aprilia, Cori, Genezzano, Cesanese di Olevano Romano, Cesanese di Affile, Latina, Circeo, Nettuno e Piana di Latina. La zona costiera di Aprilia in particolare, bonificata negli anni Trenta, ha suoli composti prevalentemente da sabbia e depositi alluvionali, per questo motivo è divenuta oggetto di sperimentazione con i vitigni internazionali. La zona del viterbese, ricca di tufo, è nota per il suo vino DOC “Est!!! Est!!! Est!!!” di Montefiascone, prodotto da uve Roscetto, Trebbiano Toscano e Malvasia.  width=

Storia e viticoltura

L’introduzione della vite nel Lazio, in particolare nell’area del Viterbese, risale al tempo degli Etruschi che coltivavano varietà autoctone spontanee utilizzando la tecnica della vite maritata, ma la sua diffusione e lo sviluppo delle pratiche enologiche vanno ricondotte all’epoca romana, soprattutto all’età augustea, con un forte incremento degli impianti ed una impennata dei consumi di vino. Il territorio dei Castelli romani era considerato luogo ideale per la coltivazione, mentre il nettare prodotto non era il frutto di una vinificazione in purezza, ma prevedeva l’aggiunta di acqua, spezie e miele. Bere vino assoluto era infatti considerato una violazione di un privilegio destinato solo agli Dei. Con il declino dell’Impero furono i monaci a tenerne viva l’eredità, rilanciata poi dalle corti papali che nel periodo rinascimentale iniziarono a cimentarsi in una viticoltura di pregio, considerando il vino non solo come elemento liturgico ma anche come parte essenziale della mensa. Una figura di spicco, nota alle cronache enologiche, fu Sante Lacerio, bottigliere di Papa Paolo III Farnese, storico e geografo oltre che appassionato di viticoltura, che si occupava non solo di selezionare i migliori vini per la corte papale, stilandone una carta dettagliata, ma era solito anche descriverne le caratteristiche, dal colore, al gusto, ai profumi, ed era esperto in materia di abbinamenti cibi-vini, una professionalità che iniziò a crescere e ad essere riconosciuta proprio in questo periodo storico. È proprio tra il XIV e il XV secolo infatti che il cibo si spogliò della sua definizione di bisogno primario per divenire qualcosa di molto diverso, anche simbolo di potere da ostentare, come dimostra la particolare attenzione all’aspetto estetico di presentazione dei piatti, finalizzato a coinvolgere e stupire gli invitati degli sfarzosi banchetti. Nel Settecento la viticoltura papale decadde e verso la fine dell’Ottocento la fillossera aggredì le vigne laziali andando a ridimensionare significativamente la produzione vitivinicola, da sempre cospicua in termini quantitativi grazie alla morfologia del territorio, costituito prevalentemente da colline. Negli ultimi anni l’impegno dei produttori è stato rivolto a valorizzare appieno la qualità delle uve, superando il concetto di produzione di massa, che ha tenuto banco nel secolo scorso, per dare spazio ad una viticoltura selettiva, di qualità e dalle basse rese e focalizzata sulla rivalutazione e valorizzazione degli autoctoni.  width=

Il Cesanese del Piglio

Il Cesanese è un vitigno a bacca rossa diffuso soprattutto in provincia di Frosinone. Le vigne, allevate prevalentemente con la tecnica del cordone speronato, sono distribuite su territori collinosi, alle pendici dei Monti Ernici, situati ad una altitudine che varia tra i 200 e 600 metri s.l.m. La zona di produzione, di origine antichissima come testimoniato dai reperti archeologici, include tutto il territorio dei comuni di Piglio e Serrone, e parte del territorio dei comuni di Acuto, Anagni e Paliano, con suoli caratterizzati dalla composizione variegata, che va dall’argilloso al sabbioso, pendenze che favoriscono il defluire delle acque, esposizione al sole ottimale, e un clima dalle primavere fresche e dalle estati molto calde, piogge discrete e venti scarsi. Citato nelle fonti enologiche solo a partire dall’800, sulle origini del nome “Cesanese” sono due le teorie più diffuse: la prima vede in “Cesanese” l’evoluzione di “Cesarese”, cioè “di Cesare”, con riferimento evidentemente all’origine romana; la seconda riconduce il nome alla costituzione di una colonia romana che sorgeva dove oggi sono impiantati i vigneti, in luogo dei boschi che furono abbattuti, cesanese sarebbe in questo caso il vino prodotto nella “caesae”, cioè nei “luoghi dagli alberi tagliati”.   Amato prima dall’imperatore Nerva, poi da Federico II di Svevia che ne faceva scorta quando si trovava a passare per queste colline per le sue battute di caccia, il Cesanese non poteva mancare nemmeno sulle tavole dei più grandi pontefici, da Innocenzo III a Bonifacio VIII la cui corte papale aveva sede proprio ad Anagni. Dal colore rosso rubino tendente al granato con l’invecchiamento, corposo e morbido, dalle note floreali e fruttate, il Cesanese del Piglio rappresenta oggi uno di quei vitigni autoctoni sui quali puntano produttori illuminati e lungimiranti, impegnati con investimenti sia in vigna che in cantina per dare slancio ad una viticultura che vede nel territorio e nella sua identità il valore più grande attraverso il quale nobilitare la produzione.  width=
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